Minuta, fragile ma indomita e “irrecuperabile” nelle sue passioni per la l’umanità, la giustizia, l’anarchia, la pace. Intenso ritratto della grande attrice scomparsa – Maria Grazia Gregori
La ricordo, sì la ricordo in diversi momenti della sua vita, Judith Malina. Minuta e fragile, ostinatamente bruna. La ricordo elegante, sottile, con i tacchi a spillo, il viso spiritoso di giovane, arguta donna, come ricordo il suo spirito ironico, tenacemente yiddish, la sua intelligenza vivacissima. La ricordo anche, non più così sottile, ma sempre bruna con quei suoi grandi occhi scuri dallo sguardo profondo, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, al ritorno trionfale del Living a Milano e le mattinate a chiacchierare davanti a un cappuccino nella hall di un alberghetto a Porta Genova. Di lei non posso dimenticare la sua determinazione, la sua costanza, la sua capacità di assumersi fino in fondo le conseguenze della sue scelte politiche che erano anche quelle di suo marito Julian Beck e che guardavano all’anarchia, che la spingevano a battersi per la libertà degli uomini e delle donne. Una libertà senza costrizioni. Un’uguaglianza totale a partire dalle opportunità di vita, una libertà sessuale altrettanto totale che non voleva essere scandalosa ma naturale.
Eppure tutto questo negli Usa aveva fatto di lei e di Julian e del gruppo che avevano fondato, il Living Theatre, qualcosa da tenere lontano, attorno al quale creare un cordone sanitario, da punire malgrado il loro credo politico fosse rigorosamente pacifista. Per questo e per lunghi anni Judith (con Julian) si era trasformata nel suo vagabondare in una donna con la valigia: poteva essere a New York e due giorni dopo a Parigi e da Parigi andare in Brasile e poi arrivare in Italia rischiando, dopo la prima loro folgorante apparizione negli anni Sessanta e le accuse contro di loro per oltraggio alla pubblica moralità, di essere fermati alle frontiere di casa nostra dove però c’era sempre qualcuno a garantire per loro, a partire da Franco Quadri a Milano ed Edoardo Fadini a Torino, mentre a Roma un assessore alla cultura brillante e innovativo come Renato Nicolini aveva accettato di recitare in un loro spettacolo. E la ricordo, Judith, sotto la Galleria di Milano a fare una manifestazione in catene per sostenere le lotte operaie nei primi Settanta e a mettere in scena al CRT di via Dini Sette meditazioni sul sadomasochismo politico.
Ma l’Italia fu solo a tratti il suo luogo d’elezione. Tutto in lei era off, fuori, contro, forse anche per sfuggire all’educazione rigida del padre rabbino (al quale, però, confessava di dovere una forte moralità), ma questo non le ha impedito di accettare e di riconoscere e perfino di amare l’autorità “paterna” del suo grande maestro Erwin Piscator, anche lui esule in America dove aveva aperto un famoso Workshop, al quale dedicò un libro (“The Piscator notebook”) di ricordi struggenti ma anche di analisi profonda di un modo di fare teatro del quale si riconosceva figlia.
Se Julian era la visione artistica, l’immagine indelebile di un teatro che parlava con il corpo, Judith possedeva lo sguardo lungo, che sapeva guardare al futuro, la capacità di raccogliere e concretizzare le visioni, le riflessioni del compagno, cercando sempre delle parole d’ordine che riuscissero a definire l’evoluzione di quel teatro, di quel gruppo, il Living Theatre appunto, il cui primo spettacolo nel 1951 era stato presentato nel soggiorno di casa (living), da lei definito anche vivente (ancora living) e poi politico, come le aveva insegnato Piscator e poi migliorativo, ecc. ecc.
Judith era anche un’attrice straordinaria, indimenticabile per chi l’ha vista, per esempio, nell’Antigone nella versione che Brecht aveva fatto della tragedia di Sofocle. Cito questo spettacolo perché la sua eroina era l’emblema di quello che lei a sua volta, era: innamorata della vita e della giustizia, “pacifista”, destinata fin dagli anni Sessanta a diventare un’icona di quella parte della nazione americana, ma anche europea, che voleva smetterla con la guerra in Vietnam, che si riconosceva in un’idea possibile di rivoluzione che avesse sempre e comunque come misura l’uomo nella sua complessità, nella sua sete di libertà e di futuro.
Sia in scena sia dietro le quinte la sua presenza si sentiva, era forte, lasciava il segno. Non ci si è stupiti quando, alla morte di Julian, prese su di sé insieme a quello che poi diventerà il suo secondo marito, Hanon Reznikov, la guida del Living, tornando ancora in Italia guidando seminari, fino all’ultima volta in cui, inserita come memoria vivente in uno spettacolo dei Motus, The plot is the Revolution, visto al Festival di Santarcangelo, pur stando seduta su di una sedia – era ormai stanca e già allora respirava a fatica – catalizzava su di sé gli sguardi degli spettatori. Lì l’ho incontrata per l’ultima volta: mi raccontò che a New York il Living lavorava in un teatrino di 100 posti in Clinton Street. I muri dell’ingiustizia, della illibertà, della prevaricazione che il gruppo aveva voluto abbattere fin dagli anni Sessanta – mi disse – non erano caduti, ma lei e i suoi attori non si sarebbero rassegnati. Cara Judith, “irrecuperabile” e piena di coraggio, ti ricordo.