“Scala” o “Piermarini”? “L’Arialda” censurata in un libro + cd. Anagoor: Virgilio brucia sempre. Piccolo Teatro 1, Milan-Inter 0
Da quando ha preso piede questa abitudine di definire, nel gergo giornalistico, la sede fisica del Teatro alla Scala «il Piermarini», identificando il luogo con il nome del suo costruttore? Le innovazioni linguistiche non sono mai censurabili: questa però mi pare davvero brutta. Sarebbe come chiamare il Teatro Olimpico di Vicenza «il Palladio», o il grattacielo Pirelli «il Giò Ponti». Un obbrobrio, che dite? Giorni fa si è arrivati al punto di indicare, in un titolo di cronaca, i giovani danzatori che ne frequentano la Scuola di Ballo come «gli allievi del Piermarini»: ma gli allievi del Piermarini, secondo la lingua italiana, non dovrebbero essere degli architetti settecenteschi, iscritti ai corsi che egli teneva all’Accademia di Belle Arti di Brera, certamente ansiosi di imparare, ma ormai da tempo morti e sepolti?
Quello contro L’Arialda di Testori, nel febbraio ’61, al Nuovo di Milano, fu uno dei più gravi interventi censori nella storia recente del teatro italiano. Lo spettacolo, diretto da Luchino Visconti, aveva felicemente debuttato due mesi prima all’Eliseo di Roma, dove era stato replicato per diverse settimane senza problemi. A Milano fu visto una sola sera: il giorno dopo scattò il divieto di rappresentarlo, per presunte oscenità. Ne seguì una battaglia giudiziaria durata quattro anni, e uno scontro di idee che coinvolse gli intellettuali e l’opinione pubblica. Su questi fatti esce ora un bel libro pubblicato da Scalpendi e curato da Federica Mazzocchi, che documenta la genesi della messinscena, i controversi rapporti fra l’autore e il regista, i tagli e le modifiche al copione operati per aggirare la censura preventiva, estratti della rassegna stampa. Il volume è corredato da un dischetto con l’audio originale e da preziose foto di scena. Da allora è passato più di mezzo secolo, ma l’episodio resta ancora fortemente emblematico.
Sono tornato a rivedere Virgilio brucia degli Anagoor a un anno e mezzo dal debutto. Nonostante sapessi praticamente a memoria ogni fase dello spettacolo, non c’è stato un solo secondo, nel corso del suo svolgimento, che mi sia parso superfluo. Non c’è stato un solo istante in cui, al di là della varietà dei linguaggi e delle fonti di ispirazione, la compagnia di Castelfranco Veneto non mi abbia dato l’impressione di seguire il filo di un pensiero, di concretizzare un concetto, un’idea, una tormentata visione del rapporto tra poesia e potere, tra classicità e tragedie del presente, tra dolore individuale e destini collettivi. Potrà piacere o non piacere il loro modo di far teatro, ma poche realtà, oggi in Italia, hanno questa stessa capacità di finalizzare tutto il proprio lavoro a condurre passo passo lo spettatore lungo un impervio percorso intellettuale.
I media hanno dato ampio spazio alla notizia che il numero di abbonati del Piccolo Teatro ha superato quelli di Inter e Milan. Questa scelta di cultura fa ovviamente piacere, ma forse il dato non è così significativo. Non ho nulla da dire contro il Piccolo, sia ben chiaro: vedendo però come giocano, di questi tempi, le due squadre milanesi, verrebbe voglia di abbonarsi anche al teatro della parrocchia.