L’amante di Pinter nell’intrico dell’io

Lorenzo Loris, con i scena i bravi Cinzia Spanò e Roberto Trifirò, suggerisce un’interessante rilettura del testo di Harold Pinter che ne ribalta il significato comunemente attribuitoleRenato Palazzi

Ne L’amante – un testo “minore” di Pinter, ma forse meno marginale di quanto si sia sempre pensato, meno virtuosistico nel provocare lo smarrimento dello spettatore, ma tutto sommato più concreto di tante opere considerate capolavori – si descrive un bizzarro rapporto coniugale: ogni mattina il marito va al lavoro salutando la moglie e chiedendole se quel giorno, nella loro rispettabile casa borghese, lei vedrà il suo amante, mentre lui non esita a propria volta ad ammettere di incontrare regolarmente una prostituta. La sera, i due si raccontano i dettagli di queste loro relazioni. A poco a poco, però, si scoprirà che quell’ipotetico amante della donna è il marito stesso, più o meno travestito, e la presunta prostituta è la moglie, in un reciproco gioco di ruoli.

Fin dagli inizi il testo, costruito comunque con estrema abilità, è stato sempre considerato come la rappresentazione di un passatempo erotico, di un espediente un po’ morboso per tenere vivo un rapporto che rischia di soccombere alla noia. E questo sforzo, questo trucco metamorfico è stato visto come l’emblema di un’istituzione matrimoniale che, soprattutto all’epoca in cui L’amante fu scritto, nel ’62, nel pieno clima di rottura delle convenzioni perbenistiche che avrebbe portato alla rivoluzione dei costumi e al mito della liberazione sessuale, veniva raffigurata come il concentrato di ogni ipocrisia. La vita di coppia, secondo la lettura corrente, estingue la passione, sostituita da un suo vacuo e perverso equivalente, dal bisogno di un’immaginaria trasgressione.

Tutto questo, senza dubbio, esiste, tutto questo è vero, e rientra nei caratteri dell’ambiente che Pinter ha voluto raffigurare. Ma siamo proprio sicuri che Richard e Sarah, i due protagonisti, abbiano davvero esaurito le loro risorse di passione, che l’amore non basti più ad accenderne le fantasie, che, insomma, le “maschere” che indossano siano uno stanco surrogato, la versione degradata di un’autentica e naturale attrazione? Sembra un punto di vista vagamente moralistico, che certo non era nelle intenzioni dell’autore. In realtà i due, nella loro ambiguità, non paiono affatto stanchi l’uno dell’altra, anzi il legame che li unisce risulta in fondo solidissimo. E di passione, in quegli appuntamenti sotto mentite spoglie, dimostrano di averne anche più del necessario.

Appare dunque poco convincente l’idea che essi debbano fingersi degli individui diversi solo per dare sfogo a torbidi impulsi sadomasochisti. Ciò che la bella e accurata messinscena di Lorenzo Loris sembra suggerire, con quegli scambi di colori negli abiti di Richard e di Sarah, con quelle nette contrapposizioni – fisiche, ma forse anche mentali – di bianco e nero, di chiaro e scuro, e quegli specchi disposti ovunque a rifletterne le immagini, è che la ricerca di un altro-da-sé da cui i personaggi sono mossi trascende probabilmente la mera sfera sessuale. Di eros, nello spettacolo in scena all’Out Off di Milano, in fondo ce n’è poco. Tanti segnali, tante piccole sfumature interpretative (che Loris dosa con maestria) fanno invece pensare a un più ampio problema dell’io.

L’impressione che si ricava dalla sfaccettata prova dei due attori, i bravi Roberto Trifirò e Cinzia Spanò, è che i protagonisti debbano inventarsi delle false identità non per una stramba devianza, ma perché non possono farne a meno: diventare qualcun altro è il solo modo che hanno per essere se stessi. Non a caso quando Richard vorrebbe interrompere le loro recite pomeridiane non ci riesce, è costretto a desistere dal suo proposito. Forse bisognerebbe ribaltare le prospettive. Forse la vera Sarah è quella che fa la zoccola, e il vero Richard è quello che si veste da Max, lo spudorato gigolò, mentre gli altri, il ligio impiegato e la brava casalinga, sono dei loro “doppi” frustrati e ingrigiti, sono i prigionieri di un’asettica ma feroce costrizione sociale.

Tutto questo viene inquadrato con una buona dose di ironia, mista ad affettuosa comprensione. Si sorride del fatto che, per liberarsi dei propri freni inibitori, i due debbano ricorrere a degli incongrui bonghi che tengono nascosti in qualche angolo della casa, si sorride dell’offerta, nel pieno dei loro amplessi pseudo-adulterini, di un inglesissimo té delle cinque, che è proprio l’emblema di tutto ciò che vorrebbero esorcizzare. Ma, nell’approccio di Loris, Pinter sembra perdere un po’ della scintillante vaghezza che sempre lo contraddistingue, per assumere un insolito spessore esistenziale: quella che ci descrive ne L’amante sembra, di fatto, una piccola lotta per la sopravvivenza. E cambia poco se a tentare di salvarsi siano gli stessi Richard e Sarah o quelle loro focose emanazioni.

Visto al Teatro Out Off di Milano. Repliche fino all’8 maggio 2016

L’amante
di Harold Pinter
traduzione: Alessandra Serra
regia: Lorenzo Loris
scena: Daniela Gardinazzi
costumi: Nicoletta Ceccolini
luci: Alessandro Tinelli
musiche originali: Simone Spreafico
con: Roberto Trifirò, Cinzia Spanò, Vladimir Todisco Grande