Affabulazione

Affabulazione

Quella messa in scena con attenzione e rigore da Lorenzo Loris non è la tragedia meglio riuscita di Pier Paolo Pasolini. Tuttavia, riesce a sollecitare il pensiero dello spettatore fino a commuoverlo Renato Palazzi

 L’agiata famiglia al centro di Teorema si lascia sconvolgere nelle proprie certezze dall’oscuro potere seduttivo di un ambiguo visitatore. L’irreprensibile coppia di Orgia si abbandona a sanguinosi rituali sadomasochisti fino alla morte della donna e al suicidio del marito. L’erede della dinastia industriale raffigurata in Porcile si accoppia coi maiali e si fa sbranare da loro. L’anonimo imprenditore protagonista di Affabulazione viene scosso da un sogno che non riesce a ricordare, e che lo spinge a tentare di penetrare nell’insondabile identità del figlio, a cercare di coglierne morbosamente la segreta intimità, allo scopo di sostituirsi metaforicamente a lui, di arrivare a un paradossale ribaltamento di ruoli.

Preso da un’incontenibile smania, il Padre – indicato soltanto come tale, come rappresentante di un’infinita categoria – prima tenta di modellare il Figlio a propria immagine e somiglianza, quindi, di fronte alle resistenze di costui, ne fa l’oggetto di un’ossessiva prova di forza reciproca: lo spia, tenta di insinuarsi nella relazione del ragazzo con la sua giovane compagna. In un crescendo maniacale, arriva a ordire una trappola col progetto di mostrarsi a lui nell’atto di possedere la madre, quindi prova viceversa a scoprirlo nel suo acerbo vigore sessuale. Dopo averlo provocato, si offre alle coltellate liberatorie del Figlio, quindi, essendo sopravvissuto alle ferite, lo accoltella a sua volta a morte, causando il suicidio della moglie e la rovina della famiglia.

È un motivo ricorrente, nelle opere di Pasolini, quello degli esponenti di una classe sociale affermata e benestante – la borghesia produttiva alla testa del boom economico degli anni Sessanta, la più o meno illuminata, più o meno inquieta borghesia neo-capitalista, alle prese con le prime avvisaglie di un incombente ribaltamento epocale – che sono come costretti a rompere l’ordine costituito, a violare gli schemi di una normalità conformista, buttando così tutto all’aria. Perché lo fanno? Non certo per rivolta nei confronti della propria classe, che anzi ne esce rafforzata, ma per un fine di sopravvivenza personale: se non violano quest’ordine, muoiono. Se lo violano muoiono lo stesso, ma nel bagliore di un’autodistruzione lucidamente purificatrice.

Questo meccanismo si evince chiaramente dagli interventi della figura che introduce e commenta l’azione, e non a caso è l’ombra di Sofocle. È evidente il riferimento all’Edipo, che però non riguarda tanto l’eterno scontro di potere fra padri e figli, il ciclo dei passaggi generazionali. La questione dei rapporti fra vecchiaia e giovinezza ha un suo peso doloroso, ma non quanto il fatto che Edipo si impose attraverso la soluzione di un enigma: «Tu cerchi di risolvere un enigma – dice al Padre l’ombra di Sofocle – per andare avanti con la tua vita». È per la necessità di andare avanti che il Padre si intrufola nella personalità del figlio, persino nel suo ardore sessuale. «Ma tuo figlio – avverte Sofocle – non è un enigma. È un mistero». Dunque, un problema senza soluzione.

In tutto ciò, si badi bene, non vi è nulla di psicologico. Se si cerca di accostarsi a un testo come questo cercandovi una trama realistica, un susseguirsi di atti e comportamenti consequenziali, non si può che trovarlo oscuro e un po’ sbilenco, se ne viene fatalmente respinti. Sogno e realtà, passato e futuro, mito e storia, fantasmi dell’inconscio e argomentazioni razionali si intrecciano di continuo. L’ispirazione di Pasolini è tutta sul terreno dell’intuizione poetica, e la sua scrittura mescola appunto, affannosamente, l’alta poesia e le rigidità didascaliche, le impervie astrazioni simboliche e le teorizzazioni quasi saggistiche. Proprio in una questa commistione sta il fascino e vorrei dire l’unicità del suo teatro, sostanzialmente e volutamente anti-drammatico.

Affabulazione, vista oggi, sembra forse più debole di altre sue tragedie. Non ha la tensione dialettica del Pilade, non ha la lacerante fisiologicità di Orgia. Il tema è artificioso,i personaggi si perdono in interminabili spiegazioni che non spiegano nulla. Poi ci sono, tuttavia, delle improvvise accensioni liriche, delle abbacinanti folgorazioni verbali – relative soprattutto alla natura, alla nostalgia di una perduta civiltà contadina – che inchiodano il pubblico alla poltrona. Lui, certo, avrebbe saputo come attenuare questi scarti, ma non lo ha voluto fare, ha scelto di lasciare intatto quel senso di incompiutezza che è la caratteristica del suo stile, il suo modo di rivolgersi direttamente allo spettatore, di sollecitare il suo pensiero e sotto un certo aspetto, perché no, di commuoverlo.

La regia di Lorenzo Loris all’Out Off di Milano è attenta, rigorosa, non priva di qualche sottile sentore metafisico: riesce a far arrivare il testo nelle sue molteplici sfumature, invita la platea a interrogarsi su di esse, le rende comunque tortuosamente interessanti. Di più, onestamente, non avrebbe potuto fare. Ben più arduo sembra il compito degli attori, alle prese con personaggi che non sono personaggi ma pure tipologie intellettuali: se Roberto Trifirò, nei panni del Padre, se la cava riparandosi dietro una febbrile fissità – un po’ monocorde, ma efficace – come può Annina Pedrini, malgrado tutti gli sforzi, dare credibilità a una moglie che pronuncia battute quali: «vado a provvedere ai miei doveri»? Infatti il solo momento di consistenza umana di questa figura è in quell’ultimo suo monologo prima di impiccarsi, che non le è stato però messo in bocca dall’autore, ma dal regista, che lo ha ritagliato dal lungo delirio finale del Padre.

I due ragazzi, Sara Marconi e Alberto Patriarca, sono davvero troppo acerbi, soprattutto la prima. Funziona, invece, la stralunata negromante dalla sfera di cristallo e dall’elaborato eloquio letterario di Monica Bonomi. Ma chi ne esce meglio, in definitiva, è Umberto Ceriani, molto a suo agio nelle incalzanti elucubrazioni di quel Sofocle un po’ psicanalista, un po’ profeta, un po’ teorico del teatro.

Visto al Teatro Out Off di Milano. Repliche fino al 1° giugno 2014


Affabulazione
di Pier Paolo Pasolini
regia: Lorenzo Loris
scene: Daniela Gardinazzi
costumi: Nicoletta Ceccolini
luci e video: Luca Siola

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