La donna che legge

La donna che legge

Il testo di Renato Gabrielli parte da un modello illustre, l’Ulisse di Joyce, ma poi prende una sua strada autonoma, tutta legata ai nostri luoghi e ai nostri stati d’animo attuali. Davvero particolare la struttura drammaturgica. Regia di Lorenzo LorisRenato Palazzi


Dopo avere affrontato degnamente le spericolate invenzioni linguistiche di Gadda, Lorenzo Loris torna a un autore di oggi, vicino nel tempo e nello spazio, e questa volta la sua scelta è caduta sul quarantottenne milanese Renato Gabrielli: dello status di “autore di oggi”, del concetto in sé di odiernità – se mi si passa il neologismo Gabrielli è un po’ l’emblema, l’ideale incarnazione, con ciò intendendo la condizione non del tutto espressa, eternamente in fieri di qualcuno ancora in cerca di una sua esatta dimensione. Lui scrive, insegna, si rappresenta e viene rappresentato, ma sempre come in attesa di una definitiva consacrazione.

Ne La donna che legge, in scena all’Out Off di Milano, davanti a platee ormai costantemente e irreparabilmente semi-vuote, Gabrielli parte da un modello illustre, l’Ulisse di Joyce, e precisamente dal capitolo in cui Leopold Bloom vuole lasciare un messaggio sulla sabbia per la donna con la quale aveva scambiato intensi sguardi sulla spiaggia. Poi, ovviamente, il testo prende una sua strada autonoma, tutta legata ai nostri luoghi e ai nostri stati d’animo attuali, ma L’Ulisse continua a essere citato, resta un punto di riferimento, forse al centro delle letture della donna a cui si riferisce il titolo, d’altronde sempre in procinto di stabilirsi permanentemente in Irlanda.

Dunque, l’autore ha creato una trama che si potrebbe riassumere così: siamo in una località di mare dell’Italia contemporanea, che da diversi accenni si capirà essere Rimini. C’è un uomo non più giovane, Mirco – ex-avvocato di successo ed ex-poeta fallito, apprenderemo, «talento senza vocazione e vocazione senza talento» – che è rimasto colpito dalla grazia di un’ignota ragazza intenta a leggere un libro, seduta su un pattino. L’uomo si rivolge a una sua vecchia collega, con la quale aveva avuto anni prima una densa relazione, e che ancora lo ama, incaricandola di contattare da parte sua la ragazza e di offrirle rilevanti somme di denaro in cambio del fatto che lei si lasci osservare mentre è china sul libro, che egli suppone sia il capolavoro di Joyce.

Questa specie di voyeurismo letterario, all’inizio quasi casto, motivato da una sorta di rarefatto piacere intellettuale, diventa invece progressivamente sempre più torbido e perverso, mentre parallelamente l’accettazione dei pagamenti da parte dell’oggetto di questi sguardi assume via via la forma di un’indiretta vendita di sé e della propria intimità, pur di acquisire quanto occorre per fuggire dall’Italia. Alla fine la partenza avverrà davvero. Ma la ritroveremo, un paio d’anni dopo, tornata in patria per sposare il proprietario di una boutique di moda, ingrassata, imbolsita, uscita dalla sfera del sogno come la Lolita di Nabokov, mentre verremo informati che Mirco, già malato, è morto più o meno quando lei se n’è andata, come cedendo sotto il peso della propria solitudine.

Del testo ho apprezzato molto la particolare struttura drammaturgica, basata su un continuo entrare e uscire dall’azione: la sequenza narrativa degli avvenimenti non è lineare, pare sempre fatta di anticipazioni e percorsi a ritroso nel tempo. Gli attori non si identificano in toto coi personaggi, li osservano dall’esterno, per certi versi li disegnano a “vista”. Come capita ormai spesso, usano l’enunciazione delle didascalie e delle indicazioni di copione quale artificio straniante: Mirco, in special modo, sembra a tratti quasi un suggeritore, una figura di raccordo. Particolarmente efficace è l’uso che Giada, la lettrice, fa dei messaggi che indirizza all’uomo, con correzioni e costanti ripensamenti che inquadrano i suoi sentimenti nel momento stesso in cui stanno prendendo forma.

Gabrielli manovra tutti questi espedienti con lucida padronanza, facendone un metodo di scrittura che non diventa mai una mera stilizzazione. Mi convince meno l’uso che fa della metafora, che col procedere dei fatti sembra perdere trasparenza, caricandosi a ogni passo di un certo eccesso di intenzioni dimostrative. Tutto il volersene andare della ragazza, tutto il monologo in cui si descrive l’Italia come un paese per vecchi arrapati, ad esempio, spiega troppo, toglie all’intreccio la sua valenza allusiva. E quella specie di orgasmo in diretta di Mirco dà alle sue fantasie una fisicità di cui a mio avviso non si avverte il bisogno. Come spesso capita a questo autore, a mano a mano che il racconto si sviluppa l’intelligenza sembra fare aggio sulla freschezza dell’ispirazione.

Per quanto riguarda la messinscena di Loris, quella che mostra è una rappresentazione colta sul nascere, un lungo tavolo azzurro che può anche diventare un praticabile e tre sedie da spostare e sistemare secondo le esigenze. Il regista si destreggia bene nel mantenere impalpabili i comportamenti dei personaggi, sempre come sradicati da se stessi, alla ricerca di una labile identità. Stranamente, però, in questo caso la recitazione sembra in parte sfuggirgli di mano: soprattutto Cinzia Spanò, l’avvocatessa, tende ad andare sopra le righe, ad alzare la voce senza necessità, a gesticolare troppo. Ma anche il pur bravo Massimiliano Speziani, nell’occasione, forza un po’ i toni, per cui la sola Alessia Giangiuliani, nei pani di Giada, pare trovare la giusta misura.

Visto all’Out Off di Milano. Repliche fino all’8 febbraio 2015

La donna che legge
di Renato Gabrielli
regia: Lorenzo Loris
scena: Daniela Gardinazzi
costumi: Nicoletta Ceccolini
musiche: Simone Spreafico
audio e video: Alessandro Canali
luci e fonica: Stefano Bolgè
con: Massimiliano Speziani, Cinzia Spanò, Alessia Giangiuliani