Dopo venti anni di danza in emersione ma ancora non veramente emersa. Di autori solo di nome e non di fatto. Di festival che si stanno snaturando. Di risorse sempre più disperse. E di vanità sempre più scambiate per verità, proviamo a fissare alcuni punti di riflessione e di discussione per il futuro vero della danza nazionale. Cominciamo così. E buon anno a tutti – Silvia Poletti
L’anno nuovo porta inevitabilmente la voglia di riflessioni. Ancor più se con il primo gennaio si varca la soglia di un nuovo decennio- il terzo dall’inizio del secolo. Dall’avvento delle prime riconosciute realtà contemporanee di danza italiana sono passati trentacinque anni. Dal nuovo decreto MIBACT per i finanziamenti alle attività con i suoi algoritmi sei.
Inoltre dall’inizio del nuovo secolo sono state messe in archivio già 5 edizioni della NID, nuova vetrina della produzione italiana promossa dal MIBACT e più di dieci di quella ravennate della cosiddetta giovane danza d’autore, giusto per evidenziare due delle manifestazioni più note, per altro solo punte dell’iceberg di un attivismo e di un’attività propulsiva anche dal basso, che hanno certamente il pregio di tenere alta l’attenzione sulla cosa/danza in questo confuso Paese. Ma che proprio in quanto tali inducono ormai a fare realistiche valutazioni sullo stato dell’arte (e della sua conduzione). Del resto è anche questo il compito dell’osservatore, no? E allora facciamo per una volta come il bambino della celebre favola. Abbiamo la forza di dire che il Re è nudo. Gettiamo il sasso nello stagno e scuotiamo le acque, invitando alla riflessione e alla discussione costruttiva (e non delatrice da Social). Il tempo stringe e gli spettatori scappano.
Le reti di collaborazione, incentivate dalle linee programmatiche dei recenti decreti ministeriali, hanno negli ultimi anni stretto a coorte operatori e manifestazioni delle più diverse entità, filosofie, budget, location geografiche. L’idea è per altro nata da una necessità reale, emersa fin dal convegno del 1999 sulla circuitazione, organizzato dal ‘fu’ Centro Regionale Toscano per la Danza, che parlò di ‘sindrome di visibilità’ per la scarsa programmazione ragionata della produzione nazionale esortando all’azione gli operatori.
Ad animare l’attività di queste reti a tutta prima è stata sicuramente la benemerita volontà di dare opportunità alle ultimissime generazioni, particolarmente penalizzate fin lì dalla sindrome di cui sopra. Un lavoro di gran lena e molto divertito entusiasmo che in breve tempo ha trasformato la geografia teatrale nazionale, costellando i cartelloni degli spazi di spettacolo – ora tradizionali e imponenti, ora minimali e sperduti – di rassegne e appuntamenti dedicati a compagnie e artisti italiani in ‘emersione’. Quasi come ovvia conseguenza ecco che dopo una manciata di edizioni negli anni ’90, è stata rilanciata la Vetrina-mercato della danza nazionale, la biennale NID.
Con i consensi e l’attenzione sempre più evidente del Ministero, però, la rete si è trasformata in cartello. E sono emerse le criticità.
Come per esempio applicare, senza una approfondita e ragionata conoscenza del contesto italiano, una attenta valutazione del complesso stato produttivo e culturale e una padronanza vera del know how specifico di questa arte, modelli di azione e gestione concepiti altrove, per un determinato contesto – di nicchia – e per uno specifico settore, quello degli emergenti (il modello Aerowaves è quello più volte evocato/invocato). Il che ha portato a un irrigidimento ideologico, sempre più a difesa del progetto stesso che degli artisti, con una forte e sempre più evidente propensione al condizionamento dentro parametri artistici, produttivi e stilistici ben precisi, spesso fuorvianti e del tutto arbitrari nella loro selettività. Anche sulla base di una valutazione dei risultati – reali – conseguiti (si contano sulle dita quelli che al momento stanno confermando una certa contezza del proprio sé artistico e lasciano intravedere incoraggianti possibili sviluppi creativi) con doverosa onestà intellettuale sarebbe necessario rivedere modalità e sistema, tornando ciascuno a rivestire il ruolo che gli compete, aprendosi dialetticamente al confronto e lavorare per la danza, non per la propria posizione e riconoscibilità nella danza.
Del resto anche in altri ambiti della produzione italiana l’applicazione, senza adattamento e adeguamento, di modalità e esperienze nate altrove ( e oggi ohimè in gran parte in debito d’ossigeno) attesta la mentalità provinciale che senza vera consapevolezza influisce sulle linee politiche e culturali del settore, invischiandolo piuttosto che facendolo veramente progredire.
Lo dimostrano i deludenti esiti dei risultati richiesti ai Centri nazionali di produzione (idealmente assimilabili ai CCN francesi) – che faticano a farcire i calendari delle loro sedi di ospitalità, residenze, prove aperte e al contempo svolgere una importante attività produttiva con le cifre risibili assegnate secondo algoritmo (la cifra complessiva destinata ai quattro centri attualmente riconosciuti è inferiore a quanto riceve per esempio il CCN del Ballet Preljocaj di Aix en Provence). Non entriamo nel merito ora sull’opportunità o meno dell’esistenza di un Centro rispetto all’altro anche sulla base del valore ‘storico’ e incidenza REALE sulla cultura di danza italiana, piuttosto che per ragioni geopolitiche. Qui interessa ribadire che con queste cifre è impensabile realisticamente immaginare una seria e coerente opera di radicamento e incidenza della danza nel territorio di riferimento, al di là di quanto già conquistato da quelle realtà ( alcune davvero encomiabili) nel tempo. E allora cui prodest tutto questo?
Lo dimostrano anche le trasformazioni di stagioni e festival storicamente prestigiosi che spesso spinti all’innovazione dalle indicazioni e dai punteggi ministeriali farciscono i loro calendari di progetti e artisti (italiani) spesso acerbi e irrisolti, velleitari e confusi.
Quelle manifestazioni – ormai diventate spesso (per necessità di bilancio?) una la dependance dell’altra in un continuo rimbalzo dei pochi nomi davvero spendibili – dovrebbero essere invece considerati dei punti di arrivo e di riconoscimento degli artisti chiamati a produrre. I direttori artistici dovrebbero essere intellettualmente liberi di progettare secondo le loro visioni e intenzioni, piuttosto che rispetto le tabelline ministeriali e le sottili pressioni, liberi di decidere come e quanto investire su uno o più talenti. Se si vuole proteggere e far crescere una nuova generazione di artisti lo si dovrebbe fare in situazioni protette, in hub periferici di piccoli festival radicali, lasciando a quelli storici il ruolo di spazi per la definitiva consacrazione.
La pluralità di idee, espressioni, visioni è ricchezza. Negli anni del boom della danza in Italia la gente si alzava dalle poltrone di velluto dove aveva acclamato la Fracci e andava negli spazi off a vedere la ricerca di Douglas Dunn. Scendeva nelle cantine per Sieni e poi sedeva alla Scala per Béjart. L’osmosi tra le varie componenti del mosaico dell’arte coreografica creava energia, interesse, curiosità, voglia di capire e scoprire. Il propagandismo attuale invece che tende a ghettizzare il mainstream e la tradizione (ormai anche novecentesca) persino con libelli e pamphlet veicolati anche nei corsi di studio ufficiali (ma dei cui svarioni storici il tacere è bello) oltre a confondere le idee, mistificando la realtà e deformando le prospettive, conduce ad una frattura abissale tra pubblico reale e pubblico potenziale, che neppure l’audience development, con buona pace dell’Europa Creativa, è in grado di sanare.
La forzatura ideologica -ohimè spesso figlia di una vanitas intellettualistica più che di una vera consapevolezza critica- con la quale sempre più spesso si sta cercando di dare una sovrastruttura di pensiero e preparazione a esiti produttivi desolanti, è un altro dei grandi equivoci nei quali la danza italiana si è impaniata. Complice anche la (eccessiva) tolleranza da parte dei diretti interessati si è creata una sorta di fluidità vischiosa che sovente sovrappone in un’unica persona ruoli diversi di questo complesso gioco delle parti, così che si lascia che a parole e fatti sempre più si esercitino pressioni per i percorsi e le scelte di artisti e produttori, manovrando con tutti i media e incarichi a disposizione una rivoluzione che non tollera superstiti tra quanti non seguono le tendenze e i diktat del nuovo pensiero insinuante. Qui però si tira in ballo la correttezza professionale e forse sarebbe il caso che a partire dal MIBACT, in teoria garante super partes e elargitore di denari pubblici, si sollevasse finalmente e urgentemente una questione morale su chi e come vanno gestiti i ruoli in commedia. (1-continua)