Eppur si muove. Riflessioni sulla danza italiana in tempo di Covid. (2)

Con settembre riparte,anche se con estrema cautela, gran parte dell’attività di danza. Rassegne e festival sono al debutto. I corpi di ballo tornati in classe. Tutto bene dunque? E soprattutto il periodo che abbiamo vissuto cosa ha evidenziato? Continuiamo le nostre riflessioni parlando di festival e produzioni di danza contemporanea -Silvia Poletti

(2). I mesi di caos e di silenzio da parte degli uffici dello Spettacolo dal Vivo (che per lungo tempo hanno tergiversato nel dare indicazioni per eventuali procedure) hanno  disorientato la maggior parte degli operatori e delle compagnie contemporanee italiane, che proprio nei primi mesi determinano la parte principale delle produzioni e dei festival che animeranno l’anno. La chiusura delle frontiere (che perdura ancora), il distanziamento fisico, la riduzione dei posti di platea: tutte cose che hanno preso una definitiva risoluzione solo quando il Ministero ha accolto il progetto dell’apripista Ravenna Festival, che come si sa è arrivato al tavolo dei dirigenti con uno studio oliatissimo ed evidentemente (visto il successo della manifestazione anche in quest’anno buio) efficacissimo.

Cosa fare, dunque? Paradossalmente la situazione di crisi internazionale viene a vantaggio degli artisti di casa. Mai come quest’anno più o meno gli stessi nomi  si rimpallano da una rassegna a un’altra (ché chiamarli festival, ormai, è davvero fuori di luogo); mai come quest’anno è dato spazio ai ‘progetti produttivi’ dei nostri ‘autori’. È insomma la volta buona per il redde rationem, senza più alibi: è il momento di capire concretamente chi può e ha i numeri per futuri investimenti, valutare chi deve maturare o chi deve, ahimè, essere lasciato al suo destino, con buona pace di reti e retine, progetti internazionali et alia. Da queste programmazioni, dalle segnalazioni della critica, dalle reazioni del pubblico arriveranno sicuramente delle risposte che bisognerà, come mai prima, accogliere. Qualche risposta ce l’ha data del resto l’ultima NID Platform ,lo scorso ottobre a Reggio Emilia. Interessante, tra l’altro, che nel segreto dell’urna e senza ordini di scuderia precostituiti,  operatori, critici e artisti abbiano segnalato come i più apprezzati  proprio gli stessi spettacoli. Eccoli in ordine sparso: Graces, Avalanches, Bermudas, La Morte e la Fanciulla, Les Miserables e  Metamorphosis.

Mai come ora insomma si testa la tempra dei veri direttori artistici: di chi ha una visione, una capacità immaginifica e soprattutto cognizione della materia che in fatto di danza, in Italia, appare spesso confusa e trendista quando non sofferente di evidenti complessi di inferiorità nei confronti di altri paesi.

Non sono comunque le iperboli, i superlativi assoluti, lo story-telling fatto per slogan, i minuetti tra gli attori in commedia delle conferenze stampa a determinare veramente il valore di un progetto culturale degno di questo nome. A determinarli sono le proposte artistiche e le loro modalità di rappresentazione. Le idee e anche gli azzardi. Come è successo per Eden, una vera esperienza emotiva – a tratti shoccante a tratti energizzante- che ha segnato Bolzano Danza 2020: un danzatore, uno spettatore, tra palcoscenico e platea, immensa, al Teatro Comunale. E tre coreografi –Carolyn Carlson, Rachid Ouramdane, Michele di Stefano– coinvolti in un progetto volutamente radicale, ma che ha lasciato un segno anche nei giorni a seguire.

Oppure le quattro autrici di Civitanova Danza, che in pochi giorni si è organizzato e ha scelto di andare in scena, nonostante tutto: ancora la Carlson. E poi Silvia Gribaudi e Monica Casadei e Claudia Castellucci. Un ventaglio di poetiche, visioni, umori, estetiche diversissime tra loro. La cosa interessante? La diversità dei pubblici che ciascuna ha attratto. E che osmoticamente è poi ‘passato’ dall’ una all’ altra, in un circolo virtuoso di stimoli e curiosità.

In queste due situazioni, pur nella contingente criticità dettata dalle castranti normative, era chiara la solidità dell’idea portante e dell’intenzione anche ‘politica’ – al di là di ogni speculazione filosofica anche suggestiva. A queste dunque par giusto guardare più che alle edizioni on line di certe manifestazioni dedicate al contemporaneo con quella modalità shabby chic che però alla impietosa resa del video è risultata molto spesso superficiale e caotica ergo non sempre professionale.

Forse si potrebbe ripartire da qui. Entrambi i festival citati hanno compiuto, a loro rischio, un atto di resistenza, orgogliosamente asserendo l’importanza dell’evento dal vivo e della condivisione e del rapporto di scambio tra artista e spettatore, che parte però da contenuti espressivi veri, meditati, sinceri. Siano essi assoli ( come in Eden), sia in lavori più complessi ( come a Civitanova).

E lo stesso fa Oriente Occidente, ormai in rampa di lancio, che sfida niente meno che le regole di distanziamento in scena grazie alle norme della Provincia autonoma di Trento, così che  si potranno vedere nella loro integrità la novità mondiale di Pontus Lidberg Centaur con il Danish Dance Theatre e la prima nazionale di Sonoma di Marcos Morau; una selezione dei 100 soli celebrativi del centenario di Merce Cunningham e italiani a volontà: “ Sono dell’idea che l’atto teatrale nel momento stesso che avviene è insieme atto artistico e politico, perché svolge un ruolo di socializzazione, di diffusione di idee, di stimolo alla riflessione. E va fatto dal vivo.” Ha spiegato Lanfranco Cis, al timone della manifestazione  quarant’anni ( trentotto condivisi con il compianto Paolo Manfrini). “Altri tempi?- dice – Vero. Ma noi credevamo.”. Ecco forse bisognerebbe tornare a ‘credere’ in quello che si fa. Osare. Non adagiarsi. Scegliere, rischiare. Dire dei no. E dei si. Innescare la legge della meraviglia, di quel Diaghilev evocato ancora oggi, così a sproposito, ma di cui in fondo si è perso davvero la lezione.