Il quarantesimo anno del festival di Rovereto si è aperto con due prime assolute affidate alle diverse visioni dello svedese Pontus Lidberg e lo spagnolo Marcos Morau. Entrambi ad indicarci possibili scenari del nostro futuro. -Silvia Poletti
Dopo due anni ci ritroviamo a Oriente Occidente per assistere ai nuovi lavori in prima assoluta di Pontus Lidberg e Marcos Morau.
Il Festival li coproduce (insieme a importanti teatri internazionali, tra cui Chaillot) e Morau è addirittura ‘artista in residenza’ della manifestazione, che festeggia quest’anno il quarantennale. Ma dalla visione del 2018 molto è cambiato. Stiamo cautamente riprendendo i nostri usi, anche se la riconquista del teatro vede coercizioni e limitazioni -la più dolente, e stridente, quella del numero di spettatori: a Rovereto, citando ‘Propaganda live’ hanno risolto l’orrore dei posti vuoti mettendovi le silhouette dei mostri sacri che hanno segnato la storia del festival, così che capita di sederti accanto a Grotowsky o Merce Cunningham.
Siamo tutti frastornati. Spettatori e artisti. Anche coloro che, come nei casi citati, hanno potuto ripartire con i propri progetti a pieno regime, senza obblighi di distanziamenti o altro, così da portare a Oriente Occidente (che a sua volta è il primo festival in Italia a farlo) spettacoli compiuti, organici, affidati a più interpreti, senza limiti e diktat spaziali. E un senso di sfasamento si percepisce anche nelle due creazioni – Centaur per Lidberg, Sonoma per Morau- che certo per la obbligata dilatazione temporale delle prove e per l’esperienza umana che il lockdown ha imposto, hanno ancora bisogno di registrare la tenuta, sfrondare alcune lungaggini, in alcuni casi chiarire le intenzioni.
Soprattutto Lidberg che affronta, coadiuvato dall’esperta di intelligenza artificiale Cecilie Wagner-Faelstrom, il rapporto tra l’uomo e una I.A. che attraverso sensori al collo dei bravi danzatori del Danish Dance Theatre, li sposta random nello spazio segnato come una scacchiera, ne registra logaritmicamente caratteristiche caratteriali e emozioni, elabora le informazioni inserite per tratteggiare di volta in volta lacerti di drammaturgia che i danzatori devono poi seguire/eseguire( il mito dei centauri, figure antropomorfe in cui il coreografo ravvede la futuribile condizione umana- sempre più condizionata dalle macchine quasi a diventarne appunto, il braccio operativo).
L’I.A., di nome David, dà input vocali, rende traiettorie i voli d’uccello inseriti nel suo programma, mescola Schubert ai bei suoni di Ryoij Ikeda. Di fatto, niente di veramente nuovo sotto il sole. Da Cunningham a McGregor la dialettica tra virtuale e reale, la relazione corpo-mente-memoria è un argomento sviscerato da grandi coreografi innovatori. I quali però utilizzano tutto l’apparato scientifico per una personale riflessione che sedimenta e si trasforma, in scena, in qualcosa d’altro, supera il dato tecnico, il divertissement intellettualistico.
Si potrebbe scomodare per loro la parola ‘poesia’, nel senso di qualcosa di straordinariamente intimo che riesce a scaturire in un atto creativo, dove l’informazione tecnologica si sublima e riconduce alla creatività, al gusto, alla sensibilità dell’autore l’ultima parola nella messa in scena. Proprio quello che al momento manca ancora a Lidberg, che si impania in lungaggini che allentano la tensione del pezzo e non riesce a rendere chiara la struttura coreografica e drammaturgica, eccessivamente condizionata da ‘David’ .Peccato perché quando riconquista il bandolo della matassa e si abbandona alla danza regala momenti toccanti come nel bell’assolo schubertiano che dà respiro al lavoro.
Dal canto suo Marcos Morau è incredibilmente ingegnoso, creativo, fantastico nella realizzazione delle sue piéces in cui immagine, suono, testi e movimento si fondono in un linguaggio compatto e personale. In Sonoma, che fonde il termine Soma (Corpo) a Sonum suono, il punto di partenza era un approfondimento di un suo precedente lavoro da noi visto a Bolzano Danza nel 2017 – Le Surrealisme au service de la Revolution– oltre l’omonima rivista e il mondo di Bunuel. I giorni di lockdown hanno però nutrito Marcos di altre letture (come The girls sulle affiliate alla setta di Manson e Les choses romanzo culto sulla rivoluzione degli anni ’60) e ne è uscita una creazione come sempre fascinosamente inquietante, ma che un po’ fatica (specie nella prima parte) a mettersi a fuoco. Chi sono quelle nove beghine che si muovono fluttuando sulla scena crepuscolare nei magnifici costumi con echi popolari (di Morau) e che poi penitenti si chinano su un crocifisso intonando un treno di Beatitudini? E poi si trasformano in nere prefiche, e si confrontano direttamente con la morte accompagnando il trapasso dei loro vecchi? Gradualmente l’intento si definisce: Marcos sembra mostrarci un ciclo vitale incarnato in donne che vanno a ritroso, e incoronate di fiori bianchi tornano all’innocenza virginale da Paradiso terrestre ( che appare da un quadro di Bruegel) e diventano luminose e piene di energia, nuovamente pronte a combattere per la vita al suono ostinato del tamburo: quasi in eterno ritorno perché, gridano “siamo il polline che nutre il mondo”.
In questo tormento oscuro, nel travaglio comunicato da queste donne terragne e primordiali, misticismo e istinti atavici si fondono indissolubilmente e la spiritualità (evocata dal Miracolo del Venerdì Santo dal Parsifal wagneriano) si impania nelle pieghe della terra evocata da ritmi che dall’Aragona arrivano al Messico e chissà dove ancora. Le scene tendono però ad affastellarsi e giustapporsi, non sempre riuscendo a sintetizzare il loro senso, mentre la danza, corale e strutturata ( da vicino rimanda a Nijinska) o singolare dall’ inconfondibile frammentazione del movimento rende tutto elusivo infiammandosi solo con gli echi popolari.Serve insomma un editing e una calibratura drammaturgica. Quel che è già certo però è che Morau ha un mondo di visioni ammaliante e ogni suo spettacolo è un ‘viaggio’ fantastico che restituisce il senso vero del teatro.
Nella foto di apertura di Sarah Melchiori un momento di Sonoma