Costretta dal Covid a ridimensionare le sue iniziative come Capitale Italiana della Cultura ( che comunque slittano al 2021) Parma salvaguarda il suo prezioso Festival Verdi e offre una bella versione del Macbeth rivisto da Verdi per Parigi- Davide Annachini
Tra le istituzioni musicali che si sono rimboccate le maniche per trovare soluzioni all’emergenza Covid, il Festival Verdi ha brillato nel fare di necessità virtù e nel garantire un cartellone che, per quanto pesantemente sforbiciato e ridotto, ha tenuto fede all’immagine di Parma Capitale Italiana della Cultura di un 2020 da dimenticare, nomina fortunatamente estesa anche al 2021.
Nell’ insistere su un unico quanto grandissimo autore, il Festival ovviamente è da sempre finalizzato a proporre i titoli o le versioni più rare delle opere verdiane, che quest’anno hanno visto il recupero storico della versione parigina del Macbeth, finora conosciuta in italiano e non nell’originale francese.
Tra le opere giovanili dei cosiddetti “anni di galera” Macbeth si impone come un capolavoro assoluto, per ispirazione, forza drammatica e adesione al testo scespiriano. Nel riprendere l’opera per Parigi, a diciotto anni dalla prima fiorentina del 1847, Verdi cambiò alcune pagine inserendone altre assolutamente geniali (per tutte “La luce langue”, fosco monologo di Lady, la surreale scena delle apparizioni, lo struggente coro “Patria oppressa”) o felicemente ossequiose alle pretese del Grand- Opéra francese (i ballabili delle streghe al terzo atto). In realtà Macbeth era pressoché scolpito già a Firenze, anche se nella seconda versione acquisì quel quid decisivo a renderne un’opera magistrale, ancor più definita nelle atmosfere sinistre e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi.
Cosa può aggiungere quindi il libretto in francese alla musica già nota della versione abitualmente rappresentata? Sicuramente quella finezza e quella misura, non esattamente prioritarie del Verdi più sanguigno e travolgente, caratterizzanti le opere, i rifacimenti e le traduzioni approntate per Parigi, come Jerusalem, Le Trouvère, Les Vêpres Siciliennes, Don Carlos. Nel caso specifico il libretto – già fatto imbastire dall’editore Léon Escudier a Edouard Duprez ancora prima di ricevere la nuova revisione musicale di Verdi e, a seguito del suo disappunto per l’iniziativa non concordata, trasferito alle mani più abili della coppia Nuittier-Beaumont – non rientra forse tra quelle felici corrispondenze di musica e parola a cui Verdi teneva moltissimo, tanto più in un lavoro ispirato all’ adorato Shakespeare. Ma ugualmente la versione parigina costituisce un’alternativa intrigante e da conoscere per i risvolti coloristici e sottilmente incisivi suggeriti dalla lingua francese, in grado di farci apparire un’opera ben nota in qualcosa di sorprendentemente inedito.
Per l’occasione il Festival Verdi ha dato il meglio di sé a livello musicale, dovendo per forza di cose soprassedere sulla messinscena e concentrarsi sull’esecuzione in forma di concerto. Ambientato all’ aperto del bellissimo Parco Ducale, in una cornice quanto mai suggestiva e con un’organizzazione impeccabile quanto a rispetto delle prescrizioni imposte dalla sicurezza anticontagio, questo Macbeth ha assicurato le condizioni migliori per un ascolto tutto incentrato sulla partitura, che mai come in questo caso la faceva da padrona assoluta, grazie anche alla revisione approntata da Candida Mantica sull’edizione critica di David Lawton.
Ma soprattutto è stato scelto un cast di rilievo, a partire dal protagonista, Ludovic Tézier, che a livello internazionale forse non conosce confronti al momento. Voce bella e perfettamente emessa, quella del baritono francese era la garanzia di un’interpretazione da ricordare, per nobiltà, intensità, stile, supportata per altro dalla padronanza della lingua. Il suo Macbeth, regale e combattuto, diabolico e al tempo stesso umano, è stato il vertice di un’esecuzione vocale che si è distinta per omogeneità e pertinenza ai vari ruoli, anche nel caso di quello più improbo della Lady, che dopo un paio di forfait, ha trovato in Silvia Dalla Benetta un’interprete sicura quanto convincente. Passata in pochi anni dal repertorio leggero a quello drammatico, il soprano vicentino ha dimostrato se non proprio nel colore timbrico (tendenzialmente chiaro e lontano dal suggerire quella “voce brutta” vagheggiata da Verdi) sicuramente nella tenuta di una parte così insidiosa un completo controllo del suono e dei passaggi più arditi quanto delle intenzioni espressive insinuanti e demoniache caratterizzanti il personaggio della regina sanguinaria. Ottimo per l’autorità di un canto ampio e solenne, ma anche per la comunicativa dell’interpretazione, il Banquo di Riccardo Zanellato, eroico nello slancio tenorile il Macduff di Giorgio Berrugi e validissimi il Malcolm svettante di David Astorga, il Médecin profondo e suggestivo di Francesco Leone, la Comtesse (salita di grado rispetto alla semplice Dama della versione italiana) della vibrante Natalia Gavrilan, il sicaire di Jacobo Ochoa e i due bravissimi giovani Pietro Bolognini e Pilar Mezzadri Colonna come apparizioni.
Decisiva la lettura di un direttore sensibile ed elegante come Roberto Abbado, in grado di restituire le atmosfere fosche e sinistre della tragedia scespiriana attraverso le tinte orchestrali più filtrate e sommesse, di un Verdi raffinatissimo e inedito quanto pronto ad accendersi nei travolgenti concertati dei suoi più tipici colori infiammati. Abbado ha trovato ottimo supporto dalla Filarmonica Arturo Toscanini e dal Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani, applauditissimi insieme a tutto il cast da parte di un pubblico rigorosamente distanziato ma unanime nell’accoglienza di questa bellissima proposta.
Nella foto di Roberto Ricci il cast dell’opera nel set open air di Parma