Turandot battezza Parma Capitale Italiana della Cultura 2020

Non con Verdi ma con Puccini Parma inaugura l’Anno Italiano della Cultura alla presenza di Sergio Mattarella e con una Turandot dai molti pregi. -Davide Annachini

Parma ha festeggiato l’elezione a Capitale Italiana della Cultura per il 2020 con tutto l’entusiasmo di una città vitalissima e quanto mai motivata a porsi in prima fila tra i poli musicali della penisola. Con la benedizione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, forte di uno staff artistico giovane e ferratissimo e reduce da un’altra edizione fortunata del Festival Verdi, il Teatro Regio ha riaperto orgogliosamente i battenti per una stagione lirica dai molti pregi, a cominciare dall’ edizione inaugurale di Turandot, festeggiatissima tra i festeggiamenti organizzati per la prima giornata di un anno tutto da vivere nel nome della cultura.

Cultura che è sembrata manifestarsi già fuori dalle mura del teatro, come ad esempio nella bellissima sede della Casa della Musica, in cui da importanti archivi storici sono pervenuti preziosi cimeli in occasione dell’interessantissima mostra organizzata su Cleofonte Campanini, direttore d’orchestra parmigiano di grande fama ai primi del Novecento, per avere tra l’altro assunto la direzione della Scala dopo Toscanini e per aver diretto le prime assolute di opere come Adriana Lecouvreur e Madama Butterfly. Fu la sua una figura di riferimento nel teatro lirico dell’epoca, tale da configurarlo come una sorta di “eroe dei due mondi”, per il fatto di aver avviato in parallelo una seconda prestigiosa carriera in America, principalmente a New York e a Chicago, dove si spense giusto un secolo fa.

Ma, tornando alla Turandot del Regio, si può segnalare come la stagione lirica – che vedrà i suoi momenti più appetibili nel Pelléas et Mélisande di Debussy e nell’Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill – sia partita col piede giusto, grazie a un’edizione dai molti pregi e per diversi aspetti non convenzionale.

Lo spettacolo a totale firma di Giuseppe Frigeni (con i costumi di Amélie Haas), per quanto nato al Teatro Comunale di Modena nel lontano 2002, ha mostrato uno stile tuttora efficace e suggestivo, per le linee essenziali e gli effetti calibratissimi, tesi a descrivere una Turandot estranea al decorativismo tutto lacche e ventagli di una Cina oleografica e decisamente puntata a una visione funerea, tragica e severa. Il nero, quindi, come colore dominante della scena e il bianco per i costumi, con un gioco di luci finemente filtrato e una gestualità quanto mai stilizzata, sono stati gli elementi caratterizzanti una messinscena dall’ impatto sospeso e misterioso, di inedita, rarefatta teatralità.

Su questa lunghezza d’onda si è mossa coerentemente anche l’esecuzione, soprattutto nella direzione di Valerio Galli, interprete collaudatissimo di Puccini ma qui pronto a rivedere il suo abituale vitalismo a favore di una lettura meditativa, dai tempi distesi e dalle sonorità rarefatte, in una chiave scopertamente decadente, che per un’opera del Novecento come Turandot è di sicuro una soluzione pertinente e per niente consueta.

Tra le voci c’è chi è riuscito ad assecondarlo meglio di altri, come innanzi tutto la splendida Liù di Vittoria Yeo, voce purissima, lucente e modulata nei pianissimi con superba maestria, ideale nel rispondere a un personaggio candido e intenso, che ha emozionato ed entusiasmato il pubblico al punto da assicurarle il maggiore successo della serata. Anche Rebeka Lokar è stata a suo modo una Turandot in linea con l’impostazione generale, per il canto lontano dalle sparate e dalle tensioni vocali di tradizione e risolto invece con una linea più sfumata, sorvegliata e flessuosa, di vago sapore Liberty, quindi insolitamente in stile con l’epoca originale dell’opera. Da parte sua Carlo Ventre ha invece onorato l’immagine di un Calaf di solida tradizione, dal canto vibrantissimo, squillante e sicuro nelle impennate acute, che in un teatro storicamente esigente in fatto di tenori come il Regio ha tranquillizzato anche gli spettatori più esigenti. Austero e dolente l’ottimo Timur di Giacomo Prestia, molto riuscito il terzetto delle Maschere, con Fabio Previati (Ping), Roberto Covatta (Pang), Matteo Mezzaro (Pong), e validissimi l’Altoum di Paolo Antognetti, il Mandarino di Benjamin Cho, il Principe di Persia di Marco Gaspari e le ancelle di Lorena Campari e Marianna Petrecca.

Encomiabili per finire la Filarmonica dell’Opera Italiana “Bruno Bartoletti”, il Coro del Teatro Regio di Parma e le Voci Bianche Ars Canto “Giuseppe Verdi”, diretti rispettivamente da Martino Faggiani ed Eugenio Maria Degiacomi, che hanno contribuito ad un’edizione inaugurale giustamente applauditissima