Molta attesa, premiata, per il cast vocale dell’ultimo capolavoro pucciniano in scena al Comunale di Bologna. Se c’è qualche perplessità arriva dalla concezione della regia in eccesso di autoreferenzialità- Davide Annachini
La Turandot di Puccini in scena al Teatro Comunale di Bologna presentava sicuramente un forte richiamo nella componente musicale, in cui spiccavano soprattutto i tre protagonisti, cantanti di sicuro interesse e fama internazionale, alle prese con una delle partiture più improbe per le voci che si conoscano.
Nel caso del soprano cinese Hui He si trattava – salvo errori – addirittura di un debutto, in un ruolo da far tremare i polsi come la Principessa di gelo, che rappresenta un obiettivo limite per le cantanti più temerarie, difficilmente in grado di riuscire a tornare sui propri passi una volta sperimentata una parte così estrema. Nel caso poi di una voce come quella di Hui He, rotonda, omogenea e fondamentalmente lirica, le asprezze spasmodiche e le tensioni acute da affrontare, soprattutto a fronte di un’orchestra poderosa, potevano sembrare veramente controindicate.
Ma all’interno di un curriculum sempre più ricco di ruoli drammatici forse quello di Turandot restava un’impresa da non mancare e, a conti fatti, nemmeno mancata per la bontà dei risultati. A parte infatti qualche acuto estremo forse non pienamente centrato con giustezza, la voce calda e avvolgente della He ha dato vita a una principessa inedita, meno raggelante e imperiosa quanto più umana e toccante, con una tenuta della parte encomiabile, anche se nel futuro da tenere alla lontana per il bene di questa voce, che può essere meglio impiegata in altro repertorio.
A suo completo agio nel ruolo altrettanto impegnativo di Calaf, Gregory Kunde ha invece riconfermato un’adesione ideale a certe parti tenorili, con una risposta vocale strepitosa nella padronanza di un registro acuto tuttora poderoso, lucente e spavaldo, che nell’ assolvere all’ aspetto eroico del Principe ignoto è riuscita a metterne in luce anche quello sentimentale, con fraseggi di grande respiro e intenzioni espressive emozionanti, davvero rare da ascoltare da qualsiasi altro interprete. Se si pensa poi all’ incredibile evoluzione di questa voce, dapprima piccola, dolcissima e virtuosistica e ora voluminosa, vibrante e incisiva, c’è davvero da gridare al miracolo davanti alla seconda giovinezza di questo artista, che per professionalità, sensibilità e comunicativa è ormai diventato il beniamino del nostro pubblico, come il trionfo personale di quest’occasione ha nuovamente confermato.
Ma l’ovazione forse più esplosiva della serata è stata per la Liù di Mariangela Sicilia, soprano impeccabile per la perfetta timbratura vocale, per la grande duttilità nel gioco dei piani, dei pianissimi e delle “messe di voce” (quell’effetto difficilissimo di portare un suono dal piano al forte e poi di nuovo al piano senza tentennamenti di emissione), per l’emozionante resa del personaggio della schiava innamorata, fragile ma anche eroica nella scelta di immolarsi per il suo amore impossibile. Le sue tre arie sono stati gli autentici gioielli di tutta l’esecuzione, che per il resto elencava l’ottimo Timur, grave, nobile e toccante, di In-Sung Sim, il discreto terzetto delle Maschere (Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia, Cristiano Olivieri), il valido Altoum di Bruno Lazzaretti, l’incisivo Mandarino di Nicolò Ceriani, il Principe di Persia di Massimiliano Brusco e le Ancelle di Silvia Calzavara e Lucia Viviana.
La direzione di Valerio Galli si è fatta apprezzare per sicurezza, tenuta e risposta strumentale dell’orchestra del teatro bolognese, insieme all’ottimo contributo del coro e delle voci bianche preparati rispettivamente da Alberto Malazzi e Alhambra Superchi, anche se l’eccellente acustica della sala del Bibiena ne ha fin troppo esaltato il volume sonoro, che risultava prevaricante in un’esecuzione alla lunga tendenzialmente monocorde e sacrificata soprattutto nei colori e nell’intimismo, arcano e sognante, caratterizzanti la cifra fiabesca dell’ultima opera pucciniana.
Ancora più prevaricante, per non dire invasiva, era l’idea registica di questa nuova produzione del Teatro Comunale (in collaborazione con il Massimo di Palermo e Badisches Staatstheater Karlsruhe), affidata a Fabio Cherstich e al collettivo russo AES+F, autore di video, scene e costumi, insieme alle luci di Marco Giusti. Trasportata in una fiaba virtuale, futurista e spaziale come quella di un gioco online, questa Turandot viveva sull’ horror vacui di video congestionati da immagini spesso suggestive, per lo più inquietanti e quasi sempre autoreferenziali. Palesemente influenzato dallo stile pubblicitario (in alcuni casi apparentemente in odore di lingerie), lo spettacolo trasportava in un mondo dominato da mostri femminili, tentacolari e spietati, che avvolgevano nelle loro spire – per poi decapitarli – gli inconsapevoli principi, rei di aver sfidato gli impossibili enigmi di Turandot.
Peccato che l’indubbia suggestione di certe immagini, per la nauseabonda esplosione coloristica e l’inesauribile ripetizione all’infinito, sia andata a scadere in una prevedibilità senza possibilità di riscatto ma soprattutto in una presenza schiacciante della componente visiva rispetto a quella musicale. Al punto che cantanti e coro sono stati relegati a semplici presenze inanimate e senza personalità, avvolti per lo più in costumi ridicoli (Calaf in mimetica, Liù in divisa da infermiera, Timur in medaglie e ciabatte, il coro in abiti color confetto), dai quali sono riusciti a riscattarsi solo in virtù della loro bravura.
E il pubblico, come si è detto, non ha mancato di premiarli con un successo calorosissimo.
Visto al Teatro Comunale di Bologna il 1 giugno 2019
Repliche 4-5-7 giugno
credito Foto Andrea Ranzi Studio Casaluci.
****Curiosità: l’ultimo volto sulla sinistra del display è quello di Jacopo Tissi, first soloist del Balletto del Bolshoi