La gioia

La gioia secondo Pippo

“La gioia”, lo spettacolo di Pippo Delbono, è l’approdo possibile di un dolore, come la scomparsa dell’insostituibile Bobò, oppure l’esito inatteso di un atto di condivisione, di un “fare” che significa essere “dentro” un tutto a cui apparteniamo e che ci appartieneMaria Grazia Gregori


Si fa presto a dire gioia. Questa parola, scelta da Pippo Delbono come titolo del suo nuovo, commovente spettacolo presentato al Piccolo Teatro Strehler, è una gioia del tutto particolare: non è un sentimento di felicità, di appagamento, ma nasce dal dolore, dalla mancanza, dalla solitudine, dalla nostra incapacità di essere felici – e dunque gioiosi –, dalla nostra impotenza, da una solitudine che non abbiamo cercato ma che ci troviamo addosso plumbea, dura, legata a ciò che abbiamo vissuto. Eppure anche per Delbono gioia significa – almeno così mi pare – desiderio di pienezza, di condivisione. Ecco forse la parola giusta: “condivisione”. Tutto in questo spettacolo nasce dalla condivisione: del lutto, della malattia, della solitudine. Il lutto c’è: lo sappiamo fin dall’inizio, è la morte di Bobò amico, fratello, ispirazione di Pippo morto nel corso dello spettacolo. E c’è la sua voce, ma dovrei dire la sua “parola”, tenera, gorgogliante, registrata e fatta sentire: senza esibizionismi ma con sincero e amoroso rispetto e nostalgia.

In scena è Pippo che orchestra tutto: sia che salga o scenda dal palcoscenico per parlare al pubblico, per raccontare di sé anzi di “loro”, i suoi compagni di teatro e di vita, talvolta rinchiuso in una specie di cella al centro della scena, isolata da tutto, e intanto lascia fluire la memoria, per dirci come sia difficile raggiungere – per lui, per tutti – quella specie di atarassia che è in qualche modo l’inizio della liberazione di un dolore, di un’infelicità, di sentirsi soli al mondo. Quello però che è certo è che lui non è solo: ci sono i suoi compagni, come lui segnati da esperienze difficili, da dolori che sembrano impossibili da sopportare, dalla malattia. Li conosciamo: Gianluca, Dolly, Nelson, Pepe e tutti gli altri, tutti segnati da esperienze di dolore o di diversità, comunque di emarginazione, tutti imbarcati per amore su questa nave dei folli che è la compagnia di Pippo Delbono che porta in giro per il mondo la sua diversità, la sua provocatoria instabilità che poi è il senso della poesia del suo teatro. Parlano, raccontano, alle volte si trasformano in oscure apparizioni in mezzo al pubblico, insieme ballano un valzer triste costruendo figure che sembrano pensieri in movimento. E può succedere che Pippo si trasformi con una sua compagna in un danzatore di tango – si sa il tango è un pensiero triste che si balla – subito dichiarando con ironia che ne sta prendendo lezioni.

Ma la gioia dov’è, cos’è questo sentimento che anche solo per pochi istanti può farci sentire felici? È il pensiero buddista che ci spinge ad allontanarci dalla cose del mondo, da ciò che ci dà dolore, per trasformarci a osservare le cose non con indifferenza, ma con una capacità di immergerci nel tutto? Delbono costruisce questo pensiero ma poi – si direbbe – se ne allontana; sono troppo forti i richiami degli assolo dei suoi attori: la cantante imitata perfettamente da chi è senza voce, quell’indistruttibile orlo nero che fa da sfondo da sempre ai suoi lavori anche a quelli all’apparenza più scriteriati, sottolineato con le musiche, fra gli altri, di Antonio Bataille, Nicola Toscano, Pippo stesso. Il personaggio muto interpretato da Pepe Robledo, compagno di strada di Pippo fin dall’inizio della sua storia teatrale, potrebbe suggerirci una conclusione. Pepe si muove per tutta la scena senza mai dire una parola, portando con sé dei grandi pacchi di stracci, di foglie, di poetiche barchette, creando immagini per tutta la scena che poi disfa per sostituirle con altre fino quando, verso la fine dello spettacolo, scompaiono tutte lasciando un palcoscenico vuoto che inizia di nuovo a riempire di fiori costruendo delle composizioni, fino a quando dalla soffitta del palcoscenico cadono, incastrandosi a terra delle lunghe pertiche del tutto simili ad alberi carichi di fiori fra i quali poi Pippo si inoltra sorridendo. Pepe con il suo andare e venire silenzioso, con il suo costruire mondi immaginari, mi sembra suggerisca quello che a me pare il filo conduttore di tutto lo spettacolo: che “bisogna” fare, costruire qualcosa, non fermarsi, andare avanti. Ci sarà un premio alla fine: la gioia non solo di fare ma anche di sfiorare o addirittura di vivere la bellezza. Non è vero Pippo?

Gran successo alla fine e pubblico in piedi ad applaudire.

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Repliche fino al 9 giugno 2019. Foto di Luca Del Pia

La gioia
uno spettacolo di Pippo Delbono
composizioni floreali Thierry Boutemy
musiche Pippo Delbono, Antoine Bataille, Nicola Toscano e autori vari
luci Orlando Bolognesi, suono Pietro Tirella, costumi Elena Giampaoli
Compagnia Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante,  Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella e con la voce di Bobò
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzione Théâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale