Sia resa teatralmente giustizia al nuovo spettacolo di Dario De Luca, già visto da alcuni in primavera a Castrovillari. Nella mutata ambientazione più rarefatta ed essenziale, nel testo si coglie bene il vuoto che viene aperto dal venir meno del sostanziale rapporto fra fede e ragione, facendo emergere il contrasto fra insanabile debolezza dell’umano e ideale, alta purezza del sacro – Renato Palazzi
Vorrei rendere teatralmente giustizia a Dario De Luca, co-fondatore con Saverio La Ruina del gruppo Scena Verticale, il cui nuovo spettacolo, Il Vangelo secondo Antonio, è stato piuttosto maltrattato all’ultima edizione del festival Primavera dei Teatri, forse anche a causa di un impianto scenografico che spostava l’intera azione verso un’impostazione troppo realistica. Non ero presente a Castrovillari, e non posso quindi giudicare ciò che si vide in quell’occasione: ma la proposta cui ho assistito al Teatro Ringhiera di Milano mi è parsa avere un impatto del tutto diverso.
Mutata quell’ambientazione, evidentemente condizionante, a favore di un apparato visivo molto più scarno ed essenziale, un’agile struttura metallica contornata di led che si accendono e si spengono secondo necessità, conferendo alla vicenda una risonanza tutta interiore, per certi versi quasi astratta, si evidenzia ciò che era insito fin dall’inizio nella natura di questa esperienza: che non si tratta cioè della mera rappresentazione delle conseguenze dell’Alzheimer da cui è colpito un prete di provincia, ma di un caso emblematico, che suscita interrogativi ben più inquieti su ciò che resta della spiritualità quando essa viene minata da un declino fisico e intellettuale.
Personalmente, da non credente, mi ha turbato l’immagine di questo parroco di un paese calabrese che, dopo essersi prodigato per l’intera sua vita nei confronti degli altri, degli umili, dei bisognosi, degli immigrati che approdano di continuo su quelle coste, si trova in breve tempo a non ricordare più nulla della sua missione, a ingurgitare avidamente ostie consacrate, a chiedere chi sia quel giovane inchiodato alla croce che campeggia sullo sfondo, e cosa abbia fatto di male per meritare una simile punizione.
Dietro al minuzioso studio dei sintomi e degli effetti di questa crudele malattia, che fiacca la resistenza non di chi ne è affetto, ma di chi gli sta intorno – come dice la sorella-perpetua di don Antonio, sollevando qualche dubbio sui naturali limiti della pietà cristiana o anche solo della compassione famigliare – si avvertono abissi ben più vasti: si coglie il vuoto che viene aperto dal venir meno del sotterraneo ma sostanziale rapporto fra fede e ragione, spicca il contrasto fra l’insanabile debolezza dell’umano e l’ideale, alta purezza del sacro. Storicamente, in fondo, abbiamo avuto in questi anni due papi uno dei quali invocava la morte per alleviare le sofferenze fisiche, e un altro si è dimesso ritenendo di non avere più le forze per assolvere al proprio incarico.
Questa caduta viene raffigurata con un’intensità persino dolorosa. Ho però l’impressione che resti come sospesa. De Luca, molto bravo nell’evocare gli smarrimenti, le allucinazioni di Don Antonio – così come bravi sono gli altri due attori, Matilde Piana e Davide Fasano nei panni rispettivamente della sorella e del giovane diacono – al culmine della sua discesa nei meandri della patologia sembra fermarsi alle soglie di un estremo paradosso: nel suo buio mentale, il sacerdote si tiene avvinghiato alla propria coscienza religiosa attraverso un rapporto istintivo, viscerale col corpo del Cristo, che stacca dalla croce e tiene con sé come fosse al tempo stesso un padre e un figlio da accudire e da proteggere.
Il passo successivo per dare un senso compiuto a questo straziante percorso potrebbe essere, a mio avviso, un finale che porti l’ottenebramento di quell’uomo di chiesa alle sue estreme conseguenze: come ne Le due zittelle, il racconto di Tommaso Landolfi da cui Emma Dante aveva tratto il suo spettacolo La scimia, in cui i gesti della messa mimati dall’ignaro animale diventano spunto di una tormentata riflessione sulla grazia e sul libero arbitrio, l’inconsapevolezza di chi è detentore del culto potrebbe sfociare nell’eresia o nell’ascesi, nel sacrilegio o in una provocatoria espressione del divino, che sono in fondo i due volti di uno stesso mistero, intimamente e scandalosamente legati.
Visto al Teatro Ringhiera di Milano. In scena fino al 4 dicembre 2016
Il Vangelo secondo Antonio
scritto e diretto da Dario De Luca
musiche originali: Gianfranco De Franco
disegno luci: Dario De Luca
scene: Aldo Zucco
con: Matilde Piana, Dario De Luca, Dario Fasano