Fortunato ritorno sulle scene verdiane del Regio di Parma della desueta Giovanna d’Arco, con un cast agguerrito e la regia visionaria di Emma Dante. Davide Annachini
Non pago di dedicargli già un festival, il Teatro Regio di Parma ha omaggiato l’amatissimo Verdi anche nella stagione invernale con un titolo tra i meno battuti, anche se ormai quasi di repertorio, come Giovanna d’Arco. Opera appartenente agli “anni di galera” e al pieno Risorgimento (1845), Giovanna d’Arco vive tuttora sulla bellezza estatica delle arie della protagonista, sul consueto ritmo incalzante del giovane Verdi, su una teatralità travolgente e spartana che, volente o no, costringe lo spettatore a prendere posizione. All’epoca non convinse ma ora – dopo la grande riabilitazione del primo Verdi avviata nell’ultimo mezzo secolo – la sua cifra così appassionata e al tempo stesso visionaria ce la fa amare per la franchezza contagiosa della musica ma anche per l’atmosfera surreale da cui è pervasa, troppo avanti per i suoi tempi. Certo, è inutile fare il pelo e il contropelo al libretto di Temistocle Solera, teatralmente sconnesso e che della Pulzella di Schiller quanto della leggenda della Santa offre solo una vaga infarinatura, tant’è che persino la sua morte non si consuma sul rogo ma nei campi di battaglia. Ora intrigano sicuramente di più l’aspetto allucinato di Giovanna e la sua integrità di donna, pressata dall’uomo – da un lato il padre intransigente, dall’altro addirittura l’innamorato re di Francia – e dal diavolo, instancabile tentatore della sua verginità.
Detto questo, Giovanna d’Arco è opera tutt’altro che semplice da mettere in scena: indispensabili sono un terzetto vocale di prim’ordine, date le rilevanti difficoltà esecutive specialmente per la protagonista, un direttore coraggioso e risolutivo, un regista fantasioso e convinto interprete di un dramma privo di autentica drammaturgia, da prendere o lasciare. A Parma l’obiettivo è stato complessivamente centrato, in particolare sul piano esecutivo, dove le voci hanno figurato in primo luogo.
Protagonista a tutti gli effetti è stata Nino Machaidze, soprano di vocalità corposa, estesa, duttile, caratterizzata da un timbro scuro e da un temperamento infiammato, che bene si prestavano a restituire una Giovanna alternativa a quella angelicata di una Caballé o di una Ricciarelli quanto semmai più in linea con quella vibrante di una Netrebko. Più eroina, ma soprattutto più donna, la sua Pulzella ha convinto per l’impeto appassionato, al di là di una dizione piuttosto impastata e di qualche passaggio ostico che le ha fatto preferire l’omissione di un paio di note acute a favore di altrettante puntature a chiusura di alcuni pezzi d’insieme. Reduce dal successo del suo Alvaro scaligero, Luciano Ganci è stato un Carlo di pasta verdiana quanto ad ampiezza e squillo vocali, ben assecondati all’occorrenza anche da un canto sfumato, tutte qualità rispondenti a un tenore affidabilissimo anche se ancora in via di maturazione come interprete. Autentica rivelazione della serata è stato inaspettatamente lo sconosciutissimo baritono mongolo Ariunbaatar Ganbaatar, che nella parte di Giacomo ha svelato una voce non solo bella per colore e impasto ma soprattutto usata benissimo, con una conoscenza nel cantabile del legato e delle mezzevoci di antica scuola – tanto più sostenuta da una dizione perfetta, nonostante l’estraneità del cantante all’italiano e persino all’inglese, da quanto è trapelato – che lo colloca subito come un elemento su cui puntare per il futuro e che trova il suo precedente nel conterraneo Amartuvshin Enkhbat, star di punta nell’attuale campo baritonale. Per quanto da verificare in ruoli più acuti e impegnativi, il successo più convinto è stato suo all’interno del cast, che elencava anche il Delil di Francesco Congiu e il Talbot di Krzysztof Baczyk.
Sul podio Michele Gamba ha diretto con sicurezza e buona tenuta dei complessi parmigiani – la Filarmonica Arturo Toscanini e il Coro del Teatro Regio preparato da Martino Faggiani -, anche se la scelta di puntare a una visione più filtrata e “cameristica” della partitura ha fatto talvolta rimpiangere l’incisività risorgimentale del primo Verdi, posposta a scelte coloristiche per altro non sempre acquisite, quando non avrebbe guastato invece dar fuoco alle polveri per animare un’opera che altrimenti fatica a reggersi in virtù della pura musica.
E se sul piano teatrale, come si è detto, le cose in quest’opera non vanno sicuramente meglio, c’è da dire che almeno la regia di Emma Dante ha scommesso sullo spirito visionario della protagonista e sull’aspetto surreale delle situazioni puntando a una messinscena dalle citazioni floreali di gusto preraffaellita (scene di Carmine Maringola, costumi di Vanessa Sannino, luci di Luigi Biondi, coreografie di Manuela Lo Sicco), contrapponendo un mondo innocentemente fiabesco a quello infernale delle tentazioni carnali, personificate dagli immancabili danzatori invasati e forsennati, che in questa più che in altre occasioni sono risultati funzionali a una narrazione drammaturgica forse divisiva ma di sicura e vitale impronta espressiva.
Caloroso il successo di pubblico, soprattutto nei confronti dei tre protagonisti.
Visto al Teatro Regio di Parma il 26 gennaio