I Lombardi alla prima Crociata, emblema del Verdi risorgimentale, ha chiuso in bellezza il festival parmigiano, con grande successo di pubblico per la vibrante esecuzione e la regia stilizzata ma incisiva di Pizzi. Davide Annachini
Ad aprire e chiudere il Festival Verdi di Parma è stata un’edizione dei Lombardi alla prima Crociata, opera cardine – insieme al precedente prototipo di Nabucco – del primissimo Verdi, che nei temi corali e battaglieri degli “anni di galera” trovava in quel 1843 la consacrazione di portavoce del Risorgimento italiano in musica. Incentrata sullo scontro di religioni tra cristiani e musulmani ma più in generale su una guerra da entrambe le parti integralista – quanto mai tragico tema di attualità dei giorni nostri – i Lombardi sono opera forse più discontinua di Nabucco a livello drammaturgico ma in compenso ricca di pagine memorabili, spesso di struggente bellezza, da quelle grandiose affidate al coro (effettivo protagonista di questo melodramma) sino al famoso assolo strumentale riservato al violino, che nel suo virtuosismo toccante si impone come una concessione paganiniana davvero impensabile in un autore così scevro dagli effetti apparentemente decorativi come Verdi. E, anche se i personaggi non svelano risvolti psicologici particolarmente interessanti rispetto a quelli che ad esempio si troveranno in Macbeth solo quattro anni dopo, il loro rilievo è dato dalla vocalità, sia di grande lirismo sia di impervia drammaticità, specialmente nel caso del soprano, come sempre nel primo Verdi obbligata a tour de force temerari.
Quindi, al di là di una certa discontinuità d’ispirazione e di un profilo prevalentemente esortativo rivolto a risvegliare gli ardori patriottici, chiaramente emergenti anche sotto le armature dei crociati o nell’invocata Gerusalemme, i Lombardi restano opera di grande impatto e di problematica esecuzione, vista la difficoltà delle singole parti e della tenuta dell’insieme.
Quella che è andata in scena al Teatro Regio di Parma è stata un’edizione dai molti meriti e nel complesso assolutamente vincente, come d’altronde ha confermato l’accoglienza entusiasta del pubblico ancora all’ultima recita. Di sicuro Pier Luigi Pizzi si è riconfermato grande maestro della scena, grazie ad uno spettacolo giocato principalmente sul bianco e nero, con un impianto scenico essenziale e dalle proiezioni suggestive (soluzione ormai in uso in tanti teatri per economizzare i costi di allestimento e ridurre all’osso i cambi di scena), che si rendeva perfettamente funzionale a un’opera dai repentini cambi di ambientazione e dalle rischiose lungaggini. Una crociata forse un po’ funerea nei costumi monocromi dei soldati, in contrasto con l’abbagliante biancore di certi fondali – talvolta bellissimi (come il grande taglio, degno di un Lucio Fontana, all’apertura di sipario), talvolta meno (vedi le apparizioni sacre, un po’ in odore di santino) – e di alcuni costumi – come quello fasciante di una longilinea e ieratica Giselda (luci di Massimo Gasparon, coreografie di Marco Berriel) -, ma che nell’abbraccio finale tra i nemici sembrava evocare un segno di pace quanto mai intonato alla nostra terribile attualità.
Proprio sulla figura stilizzatissima e incisiva della protagonista femminile si incentrava la maggiore carica espressiva della regia, in virtù della presenza fisica – atipica per una cantante lirica – di Lidia Fridman, soprano di voce ferrea, forse non sempre magica nelle sfumature, forse tagliente in certe impennate portate alla massima tensione da una tessitura acutissima, ma d’altro lato cantante impavida e interprete di indubbia intensità. Il suo successo personale è stato guadagnato ai punti, al di là di certe perplessità iniziali, per la forza e la determinazione con cui ha portato in fondo un’impresa da far tremare i polsi. Ancora condizionato da un infortunio scenico delle prime recite, Michele Pertusi è stato comunque un Pagano di grande autorità vocale, morbida, estesa, avvolgente, e al tempo stesso dilaniato dai rimorsi e riscattato dalla redenzione finale, che il pubblico (per lui di casa) ha apprezzato moltissimo. Validissime anche le prestazioni dei due tenori in campo: Antonio Poli ha dato a Oronte una voce di bella pasta tenorile, rotonda e radiosa, che se solo riuscirà a “girare” meglio sugli acuti con suoni maggiormente coperti e timbrati potrebbe figurare tra le più interessanti in Italia, mentre Antonio Corianò ha assicurato alla parte di Arvino –impegnato soprattutto a svettare negli insiemi e a sostenere i concertati – acuti spavaldi, ottimo fraseggio e bella presenza scenica. Anche Giulia Mazzola si è fatta valere come Viclinda nei finali d’atto per sicurezza e ampiezza del registro medio-acuto, insieme a tutti gli interpreti minori, Luca dall’Amico (Pirro), Galina Ovchinnikova (Sofia), Zizhao Chen (Priore), Lorenzo Mazzucchelli (Acciano).
Ottima la prestazione degli organici locali, la Filarmonica Arturo Toscanini e l’Orchestra Giovanile della Via Emilia, insieme al Coro del Teatro Regio di Parma (preparato da Martino Faggiani) e ai solisti impegnati nei frequenti interventi strumentali, in primis la bravissima violinista Mihaela Costea. Alla loro guida Francesco Lanzillotta, ancora convalescente dal traumatico incidente stradale di quest’estate, ha confermato l’abituale eleganza e capacità nel tenere le fila di un’opera complessa, con rigore esecutivo e convinzione stilistica, riuscendo ad entusiasmare il pubblico per un Verdi in grado tuttora di infiammare e commuovere, a patto di crederci sino in fondo.
Visto al Teatro Regio di Parma il 15 ottobre