La Forza di Verdi trova casa al Regio di Parma

Mentre la storica Villa di Sant’Agata viene venduta, Verdi ritrova casa al Teatro Regio di Parma, dove il festival in suo onore lo celebra con una Forza del destino per molti aspetti memorabile. Davide Annachini

Il Festival Verdi di Parma – seppure tra alcune contestazioni locali e in un clima di cambi al vertice, con la partenza del bravissimo Cristiano Sandri alla volta della direzione artistica del Regio di Torino – ha garantito anche quest’anno il livello di sempre, in particolare con un’edizione della Forza del destino da ricordare.
Opera tra le più impegnative del catalogo verdiano, La forza del destino è un titolo affrontato sempre con titubanza dai teatri, tradizionalmente per una fama di negatività che in un mondo superstizioso come questo è diventato ormai un connotato pittoresco quanto ridicolo ma in realtà per la difficoltà di riunire un cast di almeno sei fuoriclasse insieme a un direttore autorevole. A Parma gli ingredienti c’erano tutti e, visto che l’opera è stata proposta nella sua integralità, il risultato è stato ancor più ammirevole.
Merito in primis di Roberto Abbado, che ha rivelato già dalla sinfonia una lettura incisiva, nervosa e incalzante, con un taglio prevalentemente drammatico e teso a restituire l’inesorabilità precipitosa del destino, che segna sin dall’inizio l’inarrestabile rovina umana dei protagonisti. In un affresco monumentale che vede alternarsi la tragedia più cupa al più toccante lirismo, come al bozzettismo delle scene popolari, questa Forza ha centrato l’atmosfera di ogni quadro senza mai perdere di vista la tensione della narrazione, trovando una continuità drammaturgica anche in tanta discontinuità climatica, con un supporto eccellente da parte dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, insieme al coro felsineo preparato da Gea Garatti Ansini.
Nella compagnia di canto ha dominato il versante maschile, con l’Alvaro di Gregory Kunde, tenore sempreverde in grado di affrontare i passi più scabrosi con una franchezza vocale tuttora sorprendente e ancor più con una passionalità assolutamente trascinante, come il suo successo personale ha dimostrato. Da eccellente contraltare gli è stato il Don Carlo del baritono del momento, Amartuvshin Enkhbat, che dalla Mongolia è calato in Italia per ricordarci come cantavano i nostri grandi del passato, con una sontuosità vocale, una nobiltà espressiva, un’eleganza stilistica che sembravano ormai perdute. Bravissimo anche Marko Mimica, un austero ma anche umanissimo Padre guardiano, e strepitoso il Melitone di Roberto De Candia, dalla dizione esemplare, dal canto timbratissimo, dalla comicità estroversa quanto perfettamente sorvegliata. Ludmyla Monastyrska, soprano attivo nei principali teatri internazionali, è stata una Leonora dalla voce ampia e vibrante, dalla emissione soffice anche se non troppo portata al canto sfumato, che a parte qualche pianissimo suggestivo ha limitato la sua prestazione a una certa monocorde uniformità e potenza, per quanto di lusso. Annalisa Stroppa è stata un’incisiva Preziosilla, vibrante nei centri quanto svettante in alto e fornita all’occorrenza di quei difficilissimi trilli sugli acuti del “Rataplan” che nessun mezzosoprano esegue e che Verdi aveva scritto per suggerire il rullo dei tamburi di guerra. Ottimi tutti gli altri, dal nobile Calatrava di Marco Spotti all’accesa Curra di Natalia Gavrilan, dal pittoresco Trabuco di Andrea Giovannini all’Alcade di Jacobo Ochoa e al Chirurgo di Andrea Pellegrini.
Lo spettacolo a totale firma di Yannis Kokkos (luci di Giuseppe Di Iorio, movimenti coreografici di Marta Bevilacqua, proiezioni di Sergio Metalli) replicava altre messinscene del regista-scenografo francese, con architetture dalle prospettive sghembe e un’incombente oscurità, che nel creare una cornice plausibilmente soffocante e drammatica trovavano però scarsa compensazione scenica nell’immobilità generale degli interpreti, difficile da digerire in un’opera così lunga per la statica prevedibilità dei diversi quadri.
Il successo da parte di un pubblico esigente come quello parmigiano è stato caldissimo alla terza recita, colorato da un’euforia verdiana che per un momento ha fatto dimenticare la tristissima notizia della vendita della Villa di Sant’Agata, casa-museo di Verdi, a dimostrazione di come la qualità del festival si misuri anche nel salvaguardare la memoria del nostro più amato musicista italiano.

Visto al Teatro Regio di Parma, Festival Verdi, il 9 ottobre