Festival di grandi voci a Parma nel nome di Verdi e nel ricordo di Vick

Il Festival Verdi2021 è riuscito a non venir meno al suo consueto appuntamento nonostante la parentesi Covid abbia condizionato pesantemente l’occasione di festeggiare la nomina di Parma a Capitale Italiana della Cultura, che per quanto prolungata di un ulteriore anno ha dovuto fare i conti con la chiusura a singhiozzo dei teatri. Due i titoli in cartellone: Un ballo in maschera, nella versione della prima assoluta romana, e Simon Boccanegra in forma di concerto.-Davide Annachini

Il Ballo in maschera (qui sotto il titolo originale di Gustavo III) costituiva la maggiore attrattiva del Festival parmigiano anche per il fatto di rappresentare l’inconsapevole testamento artistico di Graham Vick, il regista inglese prematuramente scomparso quest’estate e di cui l’assistente prediletto Jacopo Spirei ha raccolto le idee già stese per il progetto iniziale, rielaborandole personalmente ai fini di uno spettacolo in cui l’impronta del grande Maestro era comunque evidente.

La versione scelta era per altro quella bloccata dalla censura pontificia dopo la prima del 1859 al Teatro Apollo, per via del regicidio mostrato in scena che si rifaceva a quello realmente accaduto a Gustavo III di Svezia nel 1792, durante un ballo mascherato al Teatro Reale di Stoccolma. La vicenda sarebbe stata di conseguenza trasportata da Verdi e dal librettista Antonio Somma in un’improbabile Boston del tardo Seicento, con una convivenza tra bianchi e neri così anacronistica da far sorridere ancora i pubblici anglosassoni, che tuttora scelgono di rappresentare l’opera nella versione svedese, lasciando soprattutto a noi il monopolio di quella pseudoamericana. Detto questo, nel rispolverare il libretto originale è ugualmente facile incappare in alcune perle pittoresche, come l’autodefinizione di “schiavo coronato” con cui Gustavo si prostra ai piedi dell’amata Amelia, moglie dell’amico fedele che poi l’ucciderà e oggetto di una passione che mal si giustifica con l’universale fama di omosessuale di cui si fregiava il sovrano svedese, quasi sottolineata maliziosamente da Verdi dall’onnipresente paggio en travesti Oscar, leziosa e gaia ombra del re.

Sul tema dell’ambiguità sessuale si connotava prevedibilmente lo spettacolo di Vick-Spirei, che da Querelle di Fassbinder alla Caduta degli dei di Visconti attingeva suggestioni di travestimenti e languide muscolature, in un’ambientazione dalle tonalità verde acido e nero degne di un espressionismo alla Kirchner (scene e costumi di Richard Hudson, luci di Giuseppe Di Iorio, coreografie di Virginia Spallarossa). Un catafalco dominato da un angelo della morte, nerissimo e incombente, anticipava sin dall’inizio l’epilogo funesto, trasformando il placido coro d’apertura “Posa in pace” in una sorta di veglia funebre e colorando di un aspro sapore sinistro uno spettacolo tutto pervaso dall’odore della tragedia e dell’inesorabile destino.

Lettura suggestiva, coerente e affatto coinvolgente, che ha trovato perfetta risposta nell’esecuzione musicale, a cominciare dalla direzione di Roberto Abbado, mai come in questo caso interprete incisivo e drammatico, nel colorare anche i momenti brillanti dell’opera di un amaro cinismo e quelli più tragici di un’urgenza tutta proiettata al precipitare degli eventi, grazie anche al contributo della Filarmonica Arturo Toscanini, insieme all’Orchestra Rapsody e al coro del Regio di Parma preparato da Martino Faggiani. Pressocché ideale il cast, a conferma di una consapevolezza nelle scelte artistiche che a Parma ha visto sfilare voci meravigliose in entrambe le opere. Così abbiamo potuto apprezzare la vocalità schiettamente tenorile di Piero Pretti, un Gustavo appassionato e melanconico, quella sontuosa e duttilissima di Anna Pirozzi, uno dei pochi soprani in circolazione in grado di rendere giustizia ad una parte insidiosa come Amelia, e infine quella di uno dei migliori baritoni degli ultimi anni, Amartuvshin Enkhbat, un Anckastrom (alias Renato) dal cantabile avvolgente e dalla generosità trascinante. Ammirevole nella definizione di un Oscar tutt’altro che stucchevole per la voce intensa e vibrante, oltre che per l’affascinante presenza, il soprano Giuliana Gianfaldoni e di grande spicco l’Ulrica, un po’ fattucchiera e un po’ maîtresse, di Anna Maria Chiuri, dalle tenebrosità di autentico contralto. Completavano la compagnia Fabrizio Beggi e Carlo Cigni (la coppia dei congiurati qui chiamati Ribbing e Dehorn), Fabio Previati (Cristiano), Cristiano Olivieri (Ministro di Giustizia), Federico Veltri (un servo del Conte). Grande successo.

Anche il Simon Boccanegra ha potuto contare su un’esecuzione di ottimo livello, cosa non scontata per un’opera che, oltre alle pretese esecutive e ancor più interpretative, vive ancora sul ricordo di edizioni rimaste ineguagliate. Partitura raccomandata solo alle grandi bacchette, Simone ha trovato a Parma un direttore all’altezza come Michele Mariotti, che oltre al talento ha saputo rivelare in quest’occasione una levatura d’interprete in crescendo, come è emerso da un prologo dai toni sommessi e misteriosi (assecondati non sempre da sonorità impalpabili da parte dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, un tempo forse più duttile) per arrivare a una scena del Consiglio incisiva e tagliente (dove il coro del teatro bolognese, preparato da Gea Garatti Ansini, per quanto puntuale avrebbe necessitato di essere rimpolpato da qualche elemento in più) e a seguire un secondo atto incalzante, febbrile e infine estenuato al momento della toccante morte del Doge. Una lettura encomiabile, applauditissima dal pubblico, e che ha potuto contare su un cast di assoluto rilievo.

Grande rivelazione di questa edizione è stato il Simone di Igor Golovatenko, senza ombra di dubbio una delle più belle voci di baritono ascoltate negli ultimi tempi per ampiezza, penetrazione, lucentezza, in grado di piegarsi volenterosamente a sfumature e mezzevoci capaci di restituire all’imponenza dell’uomo politico anche i suoi risvolti più intimi e piagati. Soprano di voce ugualmente monumentale e al tempo stesso morbida, Angela Meade ha delineato un’Amelia di grande impatto e sensibilità, mentre un veterano come Michele Pertusi ha riconfermato la sua nobiltà di basso e d’interprete con un misurato e suggestivo Fiesco, molto apprezzata dal pubblico di casa sua. Un pubblico notoriamente difficile quanto a tenori ma che non ha mancato di apprezzare la franchezza vocale del Gabriele Adorno di Riccardo Della Sciucca e insieme a lui l’ottimo Paolo Albiani di Sergio Vitale, il Pietro di Andrea Pellegrini, il capitano di Federico Veltri e l’ancella di Alessia Panza, all’interno di in un successo caldissimo per tutta l’esecuzione.