L’Arena delle grandi voci

Continua la ricognizione di Davide Annachini degli appuntamenti operistici più attesi della stagione estiva 2021. Come il debutto di Anna Netrebko in Turandot.

Dopo l’Aida inaugurale diretta da Riccardo Muti in forma di concerto, la Fondazione Arena di Verona ha dato il via alla sua programmazione stagionale, che, seppure con un pubblico ridotto a seimila presenze e con un radicale ridimensionamento degli allestimenti, ha mantenuto fede all’immagine di festival internazionale tra i più famosi al mondo. La riduzione delle scenografie, punto di forza dell’Arena, imposta dal rispetto dei distanziamenti per le maestranze impegnate nel montaggio delle abituali messinscene faraoniche, è stata validamente risolta con proiezioni ed effetti luci (a cura di D-Wok), ma sul piano registico forse una scelta più originale e meno anonima sarebbe stata auspicabile, piuttosto che cercare di replicare un surrogato degli spettacoli zeffirelliani in repertorio nell’anfiteatro veronese.

Con il fiuto infallibile di ex-soprano di razza, la sovrintendente Cecilia Gasdia non ha sbagliato un colpo nella scelta delle voci, assicurando anche quest’anno la presenza delle maggiori star internazionali, da Domingo a Kauffmann, dalla coppia NetrebkoEyvazov ad Anita Rachvelishvili, garantendosi anche pezzi da novanta come l’eccezionale baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat o il soprano americano Angela Meade. Voce di grande imponenza e versatilità, la Meade è stata protagonista dell’Aida in forma scenica, dove la sua vocalità solitamente impressionante nel repertorio belcantista è sembrata inaspettatamente chiara e forse meno singolare rispetto alle attese. Detto questo, l’eleganza della linea vocale, il gioco dei pianissimi (meno però nei “Cieli azzurri”, dove sono mancati i momenti magici), la sensibilità espressiva hanno delineato una protagonista di classe, che insieme alla sontuosa e impetuosa Amneris della Rachvelishvili ha monopolizzato l’esecuzione, in cui il versante maschile, per quanto solidamente rappresentato dalle voci di Jorge de Leon (Radames), Luca Salsi (Amonasro), Michele Pertusi (Ramfis), Simon Lim (il Re),  è rimasto inevitabilmente in secondo piano, sotto la direzione accurata di Diego Matheus.

L’appuntamento sicuramente più atteso dell’intero festival era comunque la prima di Turandot, in cui debuttava nel terribile ruolo della principessa Anna Netrebko, autentico numero uno tra i soprani dei nostri giorni, a fianco del marito Yusif Eyvazov, tenore in luminosa crescita artistica. In un’edizione forse non memorabile, soprattutto per la direzione slentata e discontinua di Jader Bignamini, in cui certi scollamenti con il coro – confinato sulle gradinate e non in scena per le solite problematiche antiCovid – hanno dato l’impressione di una recita non ancora messa a fuoco, la coppia protagonistica ha trionfato.

La Netrebko, in una delle parti più rischiose del repertorio sopranile, ha confermato una vocalità onnipotente per l’apparente facilità esecutiva, in cui mai un suono è risultato forzato quanto sempre naturale, soffice, rotondo, omogeneo, all’interno di una linea di canto morbidissima e dalle mille sfumature. Sentire un ruolo – solitamente palestra dell’acuto spasmodico e iperteso – totalmente “cantato” e cesellato nei colori con tanto aplomb e sensibilità espressiva è stata un’esperienza inedita e sorprendente, che ha riconfermato l’eccezionale rilievo del soprano russo, colta all’apice dei suoi straordinari mezzi. D’altro lato Eyvazov, pur non potendo contare su un timbro seducente e in serata forse non ottimale, per un registro acuto meno squillante del solito, è stato l’ideale partner di cotanta Turandot, per l’incisività interpretativa, il rilievo del fraseggio e l’accurata linea di canto, in grado di restituire l’incanto di alcune frasi con estrema poesia e la fierezza aristocratica di un Calaf per molti aspetti memorabile.

Alla trionfale e meritatissima accoglienza della coppia principesca hanno fatto parte anche la delicata e corretta Liù di Ruth Iniesta, l’eccellente Timur del giovane basso Riccardo Fassi, il nitidissimo Altoum di Carlo Bosi e, molto a distanza, il diseguale terzetto delle maschere (Alexey Lavrov, Marcello Nardis, Francesco Pittari) insieme al Mandarino di Viktor Shevchenko, al Principe di Persia di Riccardo Rados, alle ancelle di Emanuela Schenale e Alessandra Andreetti. Nonostante le riserve esecutive già segnalate, buone le prestazioni dell’orchestra e del coro areniani, insieme alle voci bianche A. d’A.Mus., che insieme alla cornice virtuale di un Oriente di tradizione hanno assicurato una Turandot di valido contorno all’inavvicinabile protagonismo dei due fuoriclasse.