“Nel furor delle tempeste” scaligere, riemerge Il pirata di Bellini

Dopo Le corsaire con la compagnia di ballo, ancora temi pirateschi per il Teatro alla Scala con questo importante revival belcantistico che però ha suscitato qualche malumore da parte del pubblico.Davide Annachini

Era il 1827 e con Il pirata Vincenzo Bellini coglieva alla Scala di Milano il suo primo incondizionato trionfo e l’elezione tra i musicisti dell’epoca a erede del trono lasciato vacante da Rossini, trasferitosi a Parigi e destinato di lì a poco a concludere la sua gloriosa attività di operista. Ma soprattutto con questo lavoro il giovane compositore catanese varava in Italia il prototipo del melodramma romantico, in cui la natura matrigna, l’amore impossibile ed eternamente rimpianto, l’eroismo e la grande scena di pazzia della primadonna tracciavano le coordinate di uno stile che avrebbe monopolizzato buona parte dell’Ottocento. Opera di sublime lirismo e di atmosfere tempestose, con un protagonista perseguitato dal destino e caratterizzato dagli affascinanti tratti byroniani, Il pirata imponeva anche il modello del tenore romantico, che nella voce del leggendario Rubini trovava le dolcezze quanto i furori dell’eroe maledetto e soprattutto un canto quasi astratto per la scrittura acutissima e impervia, obbligata a spaziare dai toni elegiaci a quelli drammatici. Si può capire la difficoltà estrema di questo ruolo, che, insieme a quello del soprano – un “drammatico d’agilità” destinato a salire e scendere dal pentagramma con sbalzi di registro impressionanti e virtuosismi infiammati –, avrebbe decretato già nella seconda metà del secolo la scomparsa del titolo dalle scene.

Alla Scala si viveva ancora nel ricordo della memorabile edizione del 1958, con una Callas e un Corelli da leggenda, anche se viene da chiedersi quanto della partitura originale fosse stata eseguita in quell’occasione, in particolare per la parte del tenore, visto che la fluviale vocalità drammatica di Corelli non rispondeva propriamente a quella angelicata di Rubini. Per la Callas il discorso era diverso, dato che grazie a lei sembrava essere tornati indietro di un secolo nell’esecuzione e un secolo avanti nell’interpretazione, con il risultato di spronare molte altre nell’impresa, determinando la riabilitazione negli ultimi cinquant’anni di questo titolo bellissimo grazie proprio alla primadonna di turno.

L’attuale edizione scaligera ha dovuto fare i conti con la penuria (per non dire assenza) di interpreti all’altezza e di conseguenza sia alla prima che in replica le beccate impietose da parte del loggione si sono fatte sentire, scatenando una sorta di “furor delle tempeste”, come cita la famosa aria del pirata Gualtiero. Dopo battibecchi dei contestatori (che hanno visto in risposta addirittura l’intervento del sovrintendente Pereira) e defezioni momentanee della star del cast (il soprano bulgaro Sonya Yoncheva), alla quarta recita le acque si sono calmate e si è potuta così ascoltare un’esecuzione che, per quanto perfettibile, aveva più d’una freccia al suo arco.

L’attesa principale era proprio per la Yoncheva, soprano avviato a un’esplorazione del repertorio spinto interessante sotto il profilo espressivo ma preoccupante sotto quello vocale, dove la sua vocalità intensa e penetrante sta già facendo i conti con un registro acuto talvolta forzato – e per questo poco incline ai piani – e con la conseguente tendenza a cantare spesso e volentieri sul forte, anche quando la parte richiederebbe un’emissione più sfumata e patetica. Certo, la zampata della primadonna non manca, tant’è che, dopo due atti risolti senza troppe emozioni, nella pazzia finale l’interprete è venuta allo scoperto, con effetto drammatico e travolgente, nonostante qualche aggiustamento sui do acuti e nonostante il fantasma della sublime Imogene callasiana aleggiasse scopertamente. Di sicuro il suo è stato comunque un personaggio reso con più attendibilità rispetto a quello di Gualtiero, in cui un tenore dalla voce squillante, estesa e timbricamente a fuoco come quella di Piero Pretti ha onorato le note (non tutte, perché anche per lui gli aggiustamenti sono stati inevitabili per assicurare la sopravvivenza) ma meno lo stile, troppo contraddistinto da un canto a pieni polmoni che poco aveva da spartire con gli abbandoni nostalgici e la nobiltà sprezzante dell’eroe pensato da Bellini. Ancora più mancato stilisticamente è apparso Nicola Alaimo come Ernesto, parte ibridamente legata a certo virtuosismo rossiniano ma anche a una cifra già decisamente romantica di “cattivo”, in cui il pur bravo bass-baritono ha faticato a centrare il giusto equilibrio, con qualche sfocatura in alto e una limitata autorità d’interprete. Ottimo il Goffredo di Riccardo Fassi e buoni l’Itulbo di Francesco Pittari e l’Adele di Marina De Liso.

La tendenza a un canto spiegato, cioè a piena voce, degli interpreti dipendeva in buona parte anche dalla direzione di Riccardo Frizza, attenta e puntuale ma anche prevalentemente troppo sonora per un’opera come questa, nostalgica e struggente nei tipici abbandoni belliniani, che sono passati in secondo piano all’interno di una lettura dalle tinte più intonate a un Romanticismo maturo che di prima maniera. Ottime le prove dell’Orchestra e del Coro scaligeri.

Lo spettacolo di Emilio Sagi inquadrava la storia in una scatola di specchi (scene di Daniel Bianco), con atmosfere nevose e decadenti che facevano pensare più alla Russia di Cajkovskij o Checov che all’assolata Caldora siciliana, imponendo una lettura vagamente ottocentesca e borghese – grazie soprattutto ai costumi stilizzati (ma non sempre felici) di Pepa Ojanguren – dominata dalle luci fredde e raggelanti di Albert Faura. Diverso il finale, dove da un incombente velario nero pronto a crollare come un’onda cupa e travolgente emergeva la sconvolta Imogene della Yoncheva, in una scena memorabile per intensità psicologica ed evocazione di un Romanticismo da tregenda.

Il pubblico, visibilmente ignaro dell’opera e della difficoltà improbe a cui erano sottoposti i cantanti, non sempre li ha premiati a dovere durante l’esecuzione, recuperando però alla fine con un successo caloroso e meritatissimo.

Davide Annachini

 

Visto al Teatro alla Scala di Milano il 9 luglio 2018. Repliche 12,14,17. 19 luglio