Il Simone di Chung fa storia alla Scala

Il ritorno sul podio di Myung–Whun Chung rappresentava un’occasione da non perdere per assistere all’opera verdiana nell’allestimento pluricollaudato del 2010. Superlativa la sua capacità di gestire l’orchestra, espressasi al meglio. Buona la compagnia di canto, con Leo Nucci sempre sulla breccia malgrado una carriera lunghissima. Elegante e misurata ma non esente da qualche manierismo recitativo la regia di Federico TiezziDavide Annachini

Il Simon Boccanegra andato in scena al Teatro alla Scala di Milano non era una nuova produzione ma un allestimento pluricollaudato dal 2010, in buona parte anche nella componente esecutiva. Nondimeno costituiva un’occasione da non perdere soprattutto per il ritorno scaligero di Myung–Whun Chung, il grande maestro coreano che negli ultimi anni sta inanellando all’interno di un repertorio vastissimo alcune interpretazioni verdiane di assoluto riferimento. Alla Scala, si sa, toccare Simone è un po’ come misurarsi con la leggenda, dato che il ricordo della mitica edizione firmata da Abbado-Strehler rappresenta un precedente difficile da scalfire ancora a quasi mezzo secolo di distanza. Da parte sua Chung ha magnificamente dimostrato di proporre una lettura alternativa e quanto mai illuminante di un Verdi apparentemente meno sanguigno rispetto a certa tradizione italiana ma assolutamente penetrante e raffinato, nella scia di quello che fu l’esempio di un Giulini (di cui Chung ebbe la fortuna di essere assistente) ma anche di un Abbado o di un Kleiber.

Superlativa innanzi tutto la sua capacità di tenere sempre leggera e in souplesse l’orchestra, nel giocare sulle sonorità più lievi eppure vibranti, toccando i fortissimi solo in casi estremi e con una costante levigatezza fonica. Il tutto in un flusso narrativo senza soluzione di continuità, dove anche i “pezzi chiusi” (arie, duetti, terzetti, concertati) non staccavano da quelli precedenti o successivi, in un fluire drammaturgico incalzante e progressivo che manteneva in costante tensione il disegno narrativo e la crescita psicologica dei personaggi, all’interno di un’opera che tra tutte quelle verdiane privilegia proprio lo sviluppo interiore dei soggetti, in primis Simone. Il mistero e l’inquietudine del Prologo evocati dalla sospensione sommessa delle sonorità, il profumo della brezza marina e l’intimismo dell’agnizione tra padre e figlia descritti con un pudore e una commozione toccanti nel primo atto, la grandiosità misurata e incisiva della grande scena del Consiglio, quanto il graduale spegnersi della vicenda con il nobilissimo morire dell’orchestra sulle ultime note di Simone e dell’opera, rimangono momenti memorabili di un’esecuzione e di un’interpretazione di assoluto riferimento, che al momento forse non conosce paragoni.

Sotto una bacchetta del genere l’orchestra e il coro scaligeri hanno elevato al meglio le loro note di qualità mentre la compagnia di canto – buona ma non esente da limiti – ha contribuito a un’omogeneità di intenti. Leo Nucci ha sfidato ancora una volta i limiti anagrafici e di una carriera lunghissima dimostrando di essere tuttora una delle poche voci autenticamente verdiane in circolazione. E anche se il cantante sempre più si affida al portamento per attaccare la nota mentre l’interprete tende a sottolineare la gestualità di un Doge più senile che nobile, la sua statura è dell’autentico mattatore, in grado di imporsi per voce quanto per personalità, qualità che nelle nuove generazioni tendono sempre più a latitare. Al fianco di un protagonista indomabile come questo, gli altri interpreti sono restati leggermente in secondo piano, vuoi per incidenza vocale vuoi per presenza scenica. Il più centrato sul primo aspetto, quanto penalizzato sul secondo, è stato sicuramente Fabio Sartori, un Adorno dalla vocalità tenorile compatta e squillante, unita a un bel colore lirico, mentre Krassimira Stoyanova è stata un’Amelia di grande finezza esecutiva e dalle ottime intenzioni espressive, solo in parte condizionate da uno strumento non sempre adeguato a superare il volume dei grandi concertati verdiani per una ridotta proiezione soprattutto del registro acuto. Quanto a impatto vocale anche il Paolo di Dalibor Jenis ha mostrato una certa debolezza, riscattata comunque dall’intelligenza del cantante e dell’attore in grado di restituire la negatività del ruolo senza forzature, diversamente da Dmitry Beloselskiy, che di una parte scolpita come quella di Fiesco ha risolto più l’onere esecutivo (ma non l’estensione e l’ampiezza vocali) che la statura del personaggio, rimasto un po’ in ombra. Deboli in buona parte anche gli interpreti di fianco.

Lo spettacolo a firma di Federico Tiezzi (scene di Pier Paolo Bisleri, costumi di Giovanna Buzzi, luci di Marco Filibeck) puntava a una purezza visiva giocata su una sobrietà di elementi scenografici, sui colori vibranti dei tessuti, su citazioni colte – che spaziavano dal Romanticismo tedesco di Friedrich al languore preraffaellita di Burne-Jones -, con indubbia eleganza, misura e qualche manierismo recitativo, forse non esattamente nello spirito genuino di Verdi ma in grado sicuramente di restituire la nobiltà e il rispetto di una delle sue opere più alte.

Successo per tutti, con punte accese per Chung, da parte di un pubblico scaligero per la verità in una delle sue repliche più apatiche.

Visto al Teatro alla Scala di Milano il 13 febbraio. Repliche fino al 4 marzo 2018. Foto © Brescia e Amisano / Teatro alla Scala

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Simon Boccanegra
Melodramma in un prologo e tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi

Simone – Leo Nucci
Amelia – Krassimira Stoyanova
Jacopo Fiesco – Dimitri Belosselskiy
Gabriele Adorno – Fabio Sartori
Paolo Albiani – Dalibor Jenis
Pietro – Ernesto Panariello

Direttore – Myung-Whun Chung
Regia – Federico Tiezzi
Scene – Pier Paolo Bisleri
Costumi – Giovanna Buzzi
Luci – Marco Filibeck

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione Teatro alla Scala e Staatsoper Unter den Linden, Berlin