ROF, festival di voci nel nome di Rossini

L’edizione 2018 del Rossini Opera Festival, sotto la direzione di uno specialista rossiniano della prima ora come l’ex-tenore Ernesto Palacio, ha scelto per la ricorrenza dei 150 anni dalla morte del Pesarese tre titoli ben assortiti tra opera seria, buffa e farsa, tutti presentati in un nuovo allestimento. Al di là delle messinscene si sono imposti però i cast, perfettamente centrati tra cantanti famosi e non, che hanno risposto al meglio a ruoli di grande impegno e talvolta proibitivi… – Davide Annachini

… Lo si è potuto apprezzare in particolare nel Ricciardo e Zoraide, opera seria del periodo napoletano – il più fecondo per Rossini quanto a sperimentazione e creatività – che pur non potendo competere con altri capolavori di quegli anni, come La donna del lago e Otello, elenca ugualmente momenti di grande interesse e suggestione. A Napoli Rossini scriveva per un terzetto di artisti formidabili, la Colbran – sua moglie ma ancor più primadonna di grande temperamento – e i tenori Nozzari e David, l’uno dalla vocalità baritonale e drammatica, l’altro invece acutissimo ed elegiaco nei tratti.

Tutte le opere scritte per loro costituiscono un esaltante banco di prova per quei pochissimi cantanti in grado di affrontarle e che a Pesaro sembravano essere stati reclutati in toto, a cominciare da un star internazionale come Juan Diego Florez, che artisticamente al ROF è nato nel 1996. Il suo debutto nell’ acrobatica parte di Ricciardo ha riconfermato l’eccellenza di una voce nata per questo repertorio, quanto a facilità del registro acuto, virtuosismo impeccabile, eleganza stilistica, tutte qualità che il tenore peruviano ha sfoggiato sin dai primi passi ma che ora sembrano di anno in anno riconfermare un miracolo di tenuta e professionalità, insieme a una maturità d’interprete davvero impagabile. Il suo trionfale ritorno non ha rappresentato comunque un successo esclusivamente personale, perché al suo fianco si sono potute ammirare due splendide conferme degli ultimi anni. Da un lato il soprano di colore Pretty Yende, che come Zoraide ha stupito per la bellezza vellutata e al tempo stesso argentina del timbro, la squisita musicalità, la nobiltà dell’interpretazione, dall’altro il tenore russo Sergey Romanovsky, che nella parte del cattivo Agorante ha spaziato su un’estensione impressionante – dai toni più cupi del baritono agli estremi acuti – con un’insolenza virtuosistica e un’incisività espressiva assolutamente uniche e soggioganti. Ma, a fianco di un professionista come Nicola Ulivieri nel piccolo ruolo di Ircano, le sorprese non sono mancate anche con la Zomira di Victoria Yarovaya, mezzosoprano russo dalla vocalità e dalla personalità impetuose, e con l’Ernesto di Xabier Anduaga, tenore spagnolo che per bellezza e ampiezza vocali ci ha dato quasi l’emozione di un giovane Carreras redivivo.

Giacomo Sagripanti alla guida dell’ottima Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ha garantito una lettura rifinita ed elegante a una partitura non facile da risolvere e da rendere plausibile anche nella tenuta drammaturgica, dove gli scontri tra Nubiani e Crociati fanno da sfondo al convenzionale triangolo (qui allargato anche a quadrato) amoroso. Sotto questo aspetto a Pesaro si era vista a suo tempo un’ineffabile regia di Luca Ronconi – ambientata nel deserto tra nerissimi africani e candidi paladini angelicati – giustamente non intenzionata a prendere troppo sul serio un melodramma che proprio serio non era nelle situazioni. Una chiave di lettura che è sembrata appartenere anche allo spettacolo di quest’anno, ma con scarsa convinzione e incerta ironia. Sta di fatto che la regia del canadese Marshall Pynkoski e della coreografa Jeannette Lajeunesse Zingg ha spiazzato per la convenzionalità ottocentesca dell’allestimento (scene dipinte e costumi da teatro dei pupi), in cui l’ossessivo svolazzo nei momenti più improbabili dei ballerini, impegnati in danze degne più delle pastorellerie di Giselle che di un esotico melodramma storico, faceva veramente sperare nella parodia. Ma il pubblico non sembra aver colto queste probabili sfumature e, nel tripudio generale per gli esecutori, più che fischiare ha accolto in una tremebonda indifferenza gli artefici dello spettacolo, che, appena guadagnato il palcoscenico, hanno preferito svicolare in tutta fretta.

Decisamente meglio è andata per Adina, l’ultima farsa scritta da Rossini (che della farsa però ha poco o nulla, a favore invece di una delicata tenerezza sentimentale), nonostante la regia di Rosetta Cucchi pigiasse un po’ troppo sul pedale della comicità a senso unico, giocando su ritmi scenici frenetici e su una messinscena parodistica, a suo modo godibilissima, con una monumentale torta a ripiani (una scenografia di Tiziano Santi) e i costumi vivacissimi di Claudia Pernigotti. Ma il successo è stato garantito soprattutto da una compagnia di canto particolarmente brillante, dominata da Lisette Oropesa, soprano americano dal virtuosismo impeccabile e dall’ incantevole grazia espressiva, a fianco di un entusiasmante Vito Priante, baritono dalla vocalità compatta e svettante, e di un interessante Levy Sekgapane, giovanissimo tenore sudafricano dal timbro singolare, soprattutto nei vertiginosi acuti. Piena di energia e vitalità la direzione di Diego Matheuz, che a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini ha meritato insieme agli interpreti il calorosissimo successo di pubblico.

Lo spettacolo di maggior successo è stato comunque Il barbiere di Siviglia, un titolo che per quanto popolarissimo non rientrava ancora nello sterminato catalogo di un maestro come Pier Luigi Pizzi, che per questo esordio ha proposto una messinscena di ammirevole rigore. La scelta di contenere i colori tra il bianco candido delle scene, dai volumi essenziali e scorrevoli, e il nero dei bellissimi costumi maschili ha sgombrato innanzi tutto il campo da una chiassosa ambientazione folcloristica di tradizione, privilegiando in questo modo la nitidezza della recitazione, mai spinta ai macchiettismi di maniera ma ad un’eloquente sobrietà nella caratterizzazione dei personaggi e nella sorvegliata comicità dell’azione. Gli ha dato man forte, oltre a Massimo Gasparon, un gruppo di eccellenti cantanti-attori, che anche fisicamente rispondevano ad una visione più asciutta e moderna dell’opera. Così si è potuto ammirare il Figaro aitante e brillantissimo del giovane baritono Davide Luciano, il Conte d’Almaviva raffinato nel canto e affascinante nella presenza scenica del tenore Maxim Mironov, la Rosina bellissima e spigliata del mezzosoprano giapponese Aya Wakizono, il Basilio austero e subdolo dell’inossidabile Michele Pertusi, il Bartolo depurato da ogni tentazione caricaturale di Pietro Spagnoli, la travolgente e piccante Berta di Elena Zilio, l’accattivante Fiorello/Ufficiale di William Corrò, il gustoso Ambrogio di Armando De Ceccon. Padroni della scena come del canto, gli interpreti hanno risposto epidermicamente alla direzione raffinata e stilizzata di Yves Abel, sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, puntuale anche durante le sfrenate passerelle che i cantanti compivano alle sue spalle, debordando dal palcoscenico verso il pubblico, che da parte sua ha risposto con un’accoglienza entusiasta per tutta la compagnia e per Pizzi in testa.

Visto al Rossini Opera Festival di Pesaro, 11,12,13 agosto. Repliche sino al 22 agosto.

In apertura Juan Diego Florez in una scena di Ricciardo e Zoraide foto Studio Amati Bacciardi. Le foto della gallery sono tutte di Studio Amati Bacciardi cortesia ROF Festival

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