Il Festival Oriente Occidente si è aperto quest’anno con due autori dalla forte capacità immaginifica. Che per lo spagnolo Morau è intrisa di affascinanti riferimenti/altri. – Silvia Poletti
Ma come fanno i marinai? Si chiedevano Dalla e De Gregori nella celebre ballata… Come fanno ce lo spiega,con simbolismi e metafore piuttosto leggibili, Pontus Lidberg, danzatore, coreografo, videomaker svedese cui Oriente Occidente ha dato il compito di aprire la sua trentottesima edizione. La prima senza Paolo Manfrini, anima del progetto fin dalla sua creazione e che qualche mese fa purtroppo ha lasciato solo Franco Cis a immaginare nuovi percorsi dialettici tra Est e Ovest, cercando connessioni, suggestioni e diversità tra due parti della medesima Mela. Nel corso del tempo il festival roveretano, che apre ufficialmente la stagione di danza 2018/19 , ha attraversato i continenti seguendo le rotte che attraversano in largo il globo e toccando gli estremi: anche quest’anno leitmotiv è stato la Nuova Via della Seta che allarga ormai le braccia anche all’America e che a Rovereto è stata rappresentata da compagnie come i giapponesi Sankai Juku , i cinesi XieXin Company, i coreani di Eun-Me Ahn.
Ad aprire però un nordico nell’aspetto e negli umori, come il biondo e prestante Lidberg, formatosi al classico con il Royal Swedish Ballet e poi virato al moderno di scuola nordica e alla ricerca anche nei campi della cinematografia e delle arti visive, che in prima assoluta ha firmato Siren, interpretato insieme a sei compagni altrettanto fascinosi e una suadente creatura -unica donna, la tailandese Sarawanee Tanatanit, impalpabile, flessuosa, eterea, in una lunga veste verde cupo: la vediamo fluttuare dentro una vasca, immagine vagheggiata nel chiaroscuro di un light design perfettamente nebbioso – creatura onirica, ammaliante, seduttiva per poi guizzare in scena, pronta a irretire i marinai.
Perché appunto è lei la sirena, che passando dall’uno all’altro e poi confondendosi – vestirà abiti maschili- e nuovamente tornando ai veli iniziali, diventa la chiara espressione di un simbolo: quel desiderio, insieme sensuale e intellettuale, che da Ulisse in poi ha spinto chi naviga nel mare della vita a cercare sempre di svelare misteri e oltrepassare i limiti. ( non a caso alla fine sarà lo stesso Pontus a immergersi nella vasca). L’assunto è più o meno questo -oltre all’ormai consueto proclama alla fluidità di amori e generi (che concede a ciascuno di amare e desiderare chi vuole): e l’autore lo sviluppa chiaramente, utilizzando i mezzi che padroneggia, dal video – che proietta immagini naturali su teli che diventano nuvole, flutti e vele- alla danza. Che appare a tratti inaspettatamente sentimentale– nel bel duetto tra Pontus e la sirena su musica di Schubert- e comunque è attuale, pur con un vocabolario non innovativo, ma leggibile e rigoroso, in cui predomina il movimento morbido e curvilineo, i giri che regalano un flusso dinamico continuo alle entrate e le uscite dei sette uomini, alle loro danze che lente portano a far indugiare in abbracci e baci. Molto curato e coeso, con un’attenzione certosina all’immagine, pur in una certa contrazione emozionale Siren svela una visionarietà personale, capace di riversarsi in scena
.E proprio ‘visionarietà’ è la parola chiave – e lo spartiacque crudele- che ha segnato il primo week end del festival roveretano. Perché crudele? Perché il paragone tra la capacità di mettere in scena il proprio immaginario usando con proprietà i propri mezzi di espressione mostrata da Lidberg e soprattutto dallo spagnolo Marcos Morau, in confronto con i coetani italiani che con loro hanno diviso il calendario ( su di loro rimando a prossimi appunti) è impietoso. In special modo Morau, con la sua compagnia La Veronal è talmente sicuro e deciso nell’uso dei mezzi scenici – luci, fonica ( stupenda, in surround ad acuire il senso di tensione e inquietudine che attraversa tutto il tempo di Pasionaria) drammaturgia, movimento – che riesce a trascinare il pubblico ‘dentro’ il suo mondo. Che in Pasionaria è suggestionato da rimandi al cinema e letteratura del paranormale e fantastico: da American Horror Story a Bunuel, da Man Ray a Ai confini con la realtà– e esplora la disumanizzazione, il raggelamento delle passioni umane, l’anaffettività. In uno spazio definito, bianco e spoglio come i corridoi degli ospedali ( o dei manicomi?), dominato da un finestrone oltre il quale gli astri, luna in primis, si muovono, si avvicinano e allontanano, si eclissano ed esplodono ( quasi a sottolineare come anche qui si fluttui in uno spazio senza tempo e senza speranza) si muovono robotizzate creature. Il popping, l’hiphop e la break sono i vocabolari a cui i danzatori ( che collaborano alla coreografia) attingono per rendere perfetto e inquietante il senso della loro disumanità: androidi alla Blade Runner, le facce fisse in non-espressioni: basti pensare alla meravigliosa ‘bambina’ dai tratti orientali, con lo sguardo terribilmente trasognato e vuoto, che ripetutamente tenta di uscire dalla sala e di telefonare ( cerca aiuto?) e le cui movenze, flessuose fino all’inverosimile improvvisamente richiamano verminosi insetti: una creaturina inquietante come le gemelline di Shining. Oppure alla donna in tailleur maschile, occhiali optometrici ( e qui Dalì verrebbe in aiuto), targhetta da manager: chi è? L’aguzzina dell’hospice? Una donna manager defemminilizzata? L’androide di Metropolis?
Forse il segreto di Morau e dei suoi è proprio questo: con segni trasfigurati dalla sua fantasia, estraniati dal contesto originale, eppure forti e assoluti, mette in corto circuito la nostra memoria e il nostro archivio fantastico e immaginifico – nutrito appunto da molteplici riferimenti estetici e culturali ( non a caso a spettatori più giovani anziché il cinema venivamo in mente gli Anime giapponesi) dei quali evidentemente si nutre, e poi metabolizza e rielabora in un suo personale, originale e suggestivo ‘viaggio’ teatrale. Affascina, indubbiamente, l’incredibile maestria con cui ogni elemento è pensato e posizionato in scena: compresa la partitura coreografica/fisica, che diventa fondamentale elemento di caratterizzazione degli umanoidi in scena ( magnificamente eseguita, tra l’altro, dai performers) e che si miscela, perfettamente e logicamente, con gli altri elementi per dare sostanza ai sogni ( o deliri?) di Morau.
foto di apertura di Alex Font, Pasionaria