Chi dice donna dice Biennale Danza

Marie Chouinard ha firmato il primo cartellone come direttrice della Sezione Danza della Biennale di Venezia dando grande spazio a una pluralità di voci al femminile. Tra queste quella, ancora fragile, del Leone d’Argento Dana Michel Silvia Poletti

Dall’invasione diffusa e quasi incontenibile della città, tra calli, palazzi, campielli alla concentrata e convogliata location del solo Arsenale (con un’unica eccezione a Campo Sant’Agnese). Dall’approccio ieratico e concettuale di Virgilio Sieni, a quello empatico ed estroverso di Marie Chouinard.

Il Capitolo Primo della nuova direttrice della sezione Danza della Biennale di Venezia appena conclusa si può sintetizzare così, al di là delle diverse iniziative che in fretta e furia la coreografa di Montreal è riuscita ad attivare, dalla nomina nel settembre scorso alla presentazione dei programmi lo scorso aprile. Tra queste il College dedicato anche ai coreografi in pectore, oltre che ai danzatori: utile, forse, ma probabilmente non essenziale.

Molto moltissimo Canada, naturalmente, in questo cartellone che ha riunito i nomi più vitali della ricerca coreografica che in Québéc, in particolar modo, ha da decenni un inesauribile vivaio. Presenti nomi ‘storici’, dalla strepitosa Louise Lecavalier – che a quasi sessant’anni non ha perso la sua intensità interpretativa che ora, mollati gli incredibili salti dell’epoca La La La Human Steps, si concentra nel controllo assoluto del proprio corpo – alle illusioni visive di Benoit Lachambre; molti di questi comunque con lavori già ampiamente visti; anche questo forse sintomo della impellenza della programmazione.

Se un comun denominatore si può trovare a questa programmazione se mai è quello di una ‘Biennale al femminile’ in cui il genere è stato rappresentato puntando sulla creatività, sulla forza vitale, sulla percezione dell’esistenza, sull’interpretazione del mondo visto da diverse latitudini (il Sud Africa di Robyn Orlin, il Nord Europa di Lisbeth Gruwez, il crogiuolo latino di Mathilde Monnier con La Ribot) e da diverse modalità appunto di vivere il ‘femminile’. Perché oggi più che mai che la questione di genere sta invadendo e condizionando anche l’espressione artistica, rendendola strumento ideologico, non si può non registrare anche solo in maniera semplicemente cronachistica,che la voce di donne coreografe nel nostro tempo ha spesso anticipato, specie nell’osservazione della vita, tematiche e problematiche forti e urgenti.

Se infatti il raffinato e algido Leone d’Oro alla Carriera Lucinda Childs chiude i conti con il debito alla rivoluzione formalista postmoderna della generazione Judson Church (premiata anche con Steve Paxton da Sieni), le altre autrici presenti sembrano prediligere l’immersione nella realtà, la dialettica con il mondo esterno, spesso e volentieri la denuncia sociale.

Che poi il contenuto si trasformi in una forma teatrale compiuta efficace e convincente, è un altro discorso. Per esempio, è il caso della vincitrice del Leone d’Argento, Dana Michel.

Performer nera di Montreal, arrivata alla ‘coreografia’ dopo una carriera agonistica, un corso di marketing e un diploma universitario di danza contemporanea, enfant gaté della danza avant garde quebecchese, Dana ha presentato il suo Yellow Towel, piéce del 2013 in cui ricorda il proprio disorientamento nel realizzare il suo essere diversa, per pelle e cultura, ed elabora la sua presa di coscienza destrutturando gli stereotipi della società nera. Nel biancore abbagliante del set, eccola così che all’inizio si muove derelitta, nascosta da una felpa e una tuta, il volto segnato da una chiazza bianca. Una figura solitaria singhiozzante e biascicante parole e mozziconi di frasi gorgogliate – in una tessitura vocale ardua e intrigante – che fa pensare immediatamente all’estrema emarginazione. Una tromba, una banana, una parrucca bionda: oggetti simbolici che rimandano a clichés tipici con cui si delinea spesso genericamente la cultura pop black, sempre divisa tra confermare se stessa ed emulare la modalità wasp. Dana li tira fuori dai suoi abiti, quasi portasse tutto con sé, fardello pesante e inevitabile, solo per il fatto di non essere bianca e bionda (nonostante la testa avvolta nell’asciugamano giallo – da cui il titolo). C’è onestà e forse vera sofferenza nell’elaborare questo flusso di coscienza mestamente rabbioso. Ma l’eccesso di solipsismo e una drammaturgia vaga, che si affida eccessivamente a un simbolismo non sempre comprensibile rischia di disorientare il pubblico e far implodere il potenziale di un’artista che evidentemente ha scelto la via della militanza, ma che risulta ancora acerba.

Avrà avuto ragione Marie Chouinard a segnalarla per un premio così prestigioso? Lo dirà il tempo. Certo non c’è nulla di più distante dal rigore atletico della coreografia selvatica ma calibratissima della rossa coreografa quebecchese. Questa volta con Soft virtuosity, still humid, on the edge Marie dilata i tempi e reitera le idee – forse eccessivamente – che fanno da spunto alla coreografia: la diversità umana espressa da camminate di vario genere (contorte, claudicanti, basculanti, erette) e dalle espressioni dei danzatori che amplificate da proiezioni, mostrano la danzante mobilità muscolare dei nostri volti. Niente di veramente originale, in verità. Nemmeno la morbida, lunghissima sequenza di gruppo al ralenti: una sorta di rimando a qualche scena di massa pittorica sottolineata dalle pose delle mani e delle braccia dei danzatori.

L’asciuttezza dell’immagine – semplici costumi casual blu scuro, su sfondo bianco, staglia la fisicità dei danzatori, la loro pulizia formale aiutando a ‘fissare’ bene la danza. Anche quando il corpo si squassa, animalescamente nudo, avvolto da una nuvola di garza – un richiamo e un auspicio di ritornare alle origini sottolineato qua e là anche da un urlo disperante? -.

Tuttavia il focus vero della pièce è sfuggente e sguscia come le reiterate sbilenche passeggiate dei ballerini, né si sente la zampata selvatica della coreografa dallo sguardo da elfo, da sempre connessa con la natura e la primordialità, e qui invece troppo distratta dal rapporto tra virtuale e reale.

Foto di Dana Michel in Yellow Towel di Ian Douglas