L’edizione 2019 della Biennale Danza si è aperta con l’evento più atteso: la giornata dedicata ai vincitori del Leone d’Argento e del Leone d’Oro alla carriera che nei mesi scorsi ha sollevato molte discussioni. Cui Sciarroni ha risposto con Augusto, un ‘elogio alla risata’. – Silvia Poletti
La Biennale Danza 2019 è partita nella bella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian con la cerimonia di assegnazione dei Leoni ( d’argento) ai francesi Théo Mercier e Steven Michel e (d’oro alla carriera) a Alessandro Sciarroni. Sul senso dell’assegnazione di quest’anno, ad opera della direttrice artistica Marie Chouinard ci siamo già espressi: e perplessità devono aver toccato anche gli animi degli interessati se nel discorso di assegnazione il presidente della Biennale Paolo Baratta ha puntualizzato che quello del quarantenne Sciarroni è un premio ‘alla carriera in divenire’ ( e del resto l’etimo suggerisce anche il continuum, no?), mentre lo stesso artista non ha mancato di ‘rivendicare’ la propria indipendenza linguistica, estetica, ideologica e culturale nell’ambito di un’arte che lo ha accolto e per la quale viene premiato: con tanto di umile presa di distanza doverosa dai Maestri che si possono/devono tradire.
Un discorso equilibrato, shakespearianamente modulato con modestia e accortezza lessicale, in un abile gioco retorico che determina giustamente il suo punto di vista. Il quale per altro non offre – nello specifico della definizione della sua poetica- davvero niente di nuovo sotto il sole: l’uccisione del padre nell’arte è stata più volte freudianamente praticata, dal Novecento a oggi. Nella lista di ringraziamenti Sciarroni non ha mancato di ricordare la zia, affetta da Sindrome di Down, che gli ha insegnato a considerare la percezione del tempo in maniera diversa e l’ha chiaramente influenzato nella messa in scena dei suoi lavori, dove i tempi dilatati e le reiterazioni di gesti minimi diventano fondamentali veicoli drammatici ( lo si è ri-visto in Your Girl, che nel 2007 lo impose all’attenzione generale). Anche qui, corsi e ricorsi, sicuramente involontari: ma come non pensare a Bob Wilson e all’esito del suo incontro con Christopher Knowles, colpito da autismo? Forse, chissà, certi meccanismi sono automatici e automaticamente indotti in artisti dalle sensibilità accese…
Così la cerimonia si è conclusa, senza il consueto incontro-dialogo con il premiato cui eravamo abituati. L’appuntamento è scivolato alla sera, all’Arsenale, quando dopo la ripresa di Your Girl si è assistito alla prima nazionale di Augusto, ultimo lavoro ideato – come lui stesso sottolinea nei credits- da Sciarroni con una pletora di consulenti drammaturgici ( tre), coach per il movimento (uno), collaboratori artistici (due) e performers (dieci).
Quali sono i meccanismi della risata? Quelli neurofisici, quelli muscolari, quelli emotivi? E come si propaga e trasmette la risata da uno all’altro fino ad arrivare come un ‘ondata energetica anche allo spettatore che assorbe e rimanda ? Questo il punto di partenza della piéce, il cui bel titolo evoca il clown – Augusto appunto- multicolore, parodista e comico, acrobatico e saltatore che nel circo fa da spalla al ‘Bianco’ e ne ridimensiona l’aulica velleità.
Nella lunga esposizione cui assistiamo, però non c’è niente che alluda appunto alle potenzialità dinamiche del personaggio del titolo: salvo una sequenza finale dei performers schierati all’unisono, molto scandita nei gesti marziali e stilizzati che ricorda da vicino Clowns di Hofesh Schecter – qui però arriva ex abrupto, e risulta giustapposta e senza vera logica drammaturgica- i dieci ridono ( in varie tonalità e emissioni ) e girano in cerchio: qualcuno si affianca ad un altro e devia dal percorso, da singoli formano coppie e trii e rompono lo schema della circonferenza prima di ritornare nel cerchio., con fluidi zig zag nello spazio scenico.Negli oltre sessanta minuti le risate trasformano in maschere i volti, contraggono i corpi in pose bizzarre, fanno trasparire emozioni più cupe dietro il velo dell’azione liberatoria. Il canto di un sopranista sospende il tempo e rende la ronda qualcosa di olimpico; ben presto però si riparte con la ridda di risate urlate e nervose. Curiosamente l’effetto empatico, almeno alle Tese, non parte: diversi spettatori prendono l’uscita, poche le risate di rimando, dalla platea.
Al di là delle disfide partigiane che sono fioccate a difesa del neo Leone d’Oro ( ma difesa di che: dell’artista in quanto tale o di quanti invece ne hanno fatto la loro stessa ragione d’esistere? Si è letto veramente di tutto: il vecchio vs il nuovo, i passatisti vs la neoavanguardia, quelli dotati di scarsa intelligenza contro quelli invece ricchi di materia grigia) il fatto è che in scena l’artefatto ( come direbbe Forsythe) mantiene una prevedibilità di impostazione e costruzione che abbiamo bene appreso e visto nei precedenti lavori dell’autore marchigiano: la tesi di partenza viene come sempre sviluppata giocando di variatio ad libitum, ma restando nella confort zone dello sviluppo a tema – tra allusione e azione, tra il qu e ora e il vagheggiare intellettuale; senza scarti e impennate davvero creative, rotture di schemi, audacia nell’impianto teatrale e nell’esecuzione dell’azione.
Dietro l’angolo c’è il rischio di un manierismo concettuale che francamente sarebbe troppo precoce. Ora quindi Sciarroni deve andare oltre, senza farsi imbrigliare da sospette sovrastrutture intellettualistiche altrui, che tendono anche a irrigimentare e a deformare la sua vera identità di artista e soprattutto osare di più – e che sia coreografia, o performance poco importa: se ha davvero qualcosa da dire, qualsiasi modalità di espressione, qualsiasi ‘forma’ scelta andrà benissimo.
Da parte loro i due artisti vincitori del Leone d’Argento – il danzatore/performer Steven Michel e l’artista visivo Théo Mercier nel loro Affordable solution for a better living mostrano un immaginario senza dubbio personale, forte, ironicamente graffiante. Una sorta di Ken dalle movenze rigide e automatiche tipiche del celebre pupattolo agisce in una casa perfettamente conformista, con mobili presi da Ikea e eretti con invidiabile velocità come veri e propri totem di omologazione e consumismo. Tutto però è algido e asettico: e poco conta scarnificarsi e restare senza pelle ( letteralmente grazie ad un costume anatomico inquietante).Il tentativo di penetrare/compenetrare l’ambiente in cui vivere resta impossibile.
foto di Alice Brazzit