Leone d’Oro alla Carriera per la Danza. Quali le ragioni di questo premio?

Il conferimento del Leone d’Oro alla Carriera per la Danza a Alessandro Sciarroni solleva una serie di domande cui bisognerà rispondere. E che naturalmente vanno ben al di là della qualità e della ragion d’essere dell’artista in questione – Silvia Poletti

Premessa. Assolutamente niente di personale nei confronti dell’artista sotto nominato, che con lucida coerenza e rispettabilissima chiarezza di intenti sta sviluppando la sua ricerca nelle diverse modalità performative – atletiche, artistiche, meccaniche.

Partito dopo il diploma di ragioniere da San Benedetto del Tronto e arrivato a Parma per studiare all’Università Conservazione dei beni culturali, ha iniziato a seguire i corsi di teatro di Lenz Rifrazioni e in seguito a partecipare ai lavori della compagnia, caratterizzati, com’è noto, da un lavoro di ricerca “visiva, filmica, spaziale, drammaturgica e sonora.”. Da lì, ha poi iniziato a praticare le sue sperimentazioni, che improvvisamente, complice la necessità di scouting implicita nell’allora emergente progetto Anticorpi XL è entrata in quel gran buglione che si vuole ideologicamente ritenere danza contemporanea, pardon, “D’Autore”. Che in quanto tale si pensa autorizzata a essere qualsiasi cosa abbia a che fare con corpi, scene e poco altro (compreso le idee).

Come si vede dal suo veloce curriculum – confermato con grande onestà intellettuale in ogni intervista rilasciata nel corso degli anni – Alessandro Sciarroni non è danzatore (nel senso che, pur avendo un discreto training fisico, non possiede una solida preparazione tecnica né una consapevolezza stilistica), né coreografo (e quello lo si vede nelle sue prove sceniche, in cui all’intuizione concettuale non fa riscontro un’articolazione e costruzione con sviluppo logico, spaziale ed emozionale dell’idea basica).

Il che non gli impedisce di lavorare con professionisti (prontamente adottato in Francia, ha lavorato anche con il Lyon Opéra Ballet), o esibirsi lui stesso in lavori spesso intriganti e sollecitatori di riflessioni sul fare e soprattutto sull’essere, mai crudelmente predatori (come quelli di Bel, tanto per citare uno) ma piuttosto dall’apprezzabile tocco umano. E poi, anche se non giovanissimo, è ancora giovane (41 anni), specialmente parlandone da artista.

Ma, detto questo, ha un senso premiarlo nientemeno che un Leone d’Oro alla Carriera per la danza? Ha senso l’assegnazione fatta dall’attuale direttrice della sezione, la coreografa canadese Marie Chouinard e ratificata dal CdA dell’istituzione veneziana? Pensando anche a quanti hanno ricevuto fino ad ora questo premio, che rifulge a riconoscimento del contributo cardinale dato da ciascuno allo sviluppo della danza (per la cronaca si tratta in ordine sparso di Merce Cunningham, Carolyn Carlson, Pina Bausch, Jiri Kylian, William Forsythe, Sylvie Guillem, Anne Teresa de Keersmaeker, Steve Paxton, Maguy Marin, Lucinda Childs ), l’unica ipotesi che sorge spontanea è che la simpatica ed estrosa artista canadese, nel tentativo di lasciar segno nella sua fin qui poco significativa presenza veneziana, abbia puntato a épater le bourgeois, premiando per un’arte che ha canoni imprescindibili (e di cui erano ben consapevoli tutti i signori sopra citati) qualcuno che, nonostante le intuizioni, non li rappresenta e conosce davvero. Pensando di dimostrare così, che nell’arte tutto questo in fondo non è così necessario e non ha davvero valore, e anzi artisti come Sciarroni (o Meg Stuart, a suo modo, lo scorso anno) segnano la strada per il futuro del genere, che secondo la Chouinard sarà/sarebbe meticciato, polilinguistico, in perenne indefinibile processo di elaborazione e con un retrogusto casual tipico degli amateurs.

Una scelta, quella della Chouinard, apparentemente radical e di rottura. E invece sfortunatamente fin troppo convenzionale. Desolatamente convenzionale, addirittura, perché alla ricerca del consenso di quanti oggi credono di rappresentare il pensiero dominante – nei salotti, nelle direzioni di festival, nelle conventicole ideologizzate – anche per sostenere i propri interessi e le proprie stesse ragioni d’esistere. Questi infatti plaudono giulivi: in un circolo vizioso del resto quel premio sembra avvalorare le loro personali motivazioni. Una domanda però è lecita: questi smarginamenti sarebbero giustificati e compresi in ambito musicale? Sarebbe  accolto senza batter di ciglio un Leone d’oro alla carriera per la musica a chi la pratica senza conoscerne i fondamentali, le logiche, le regole? Ad un magari splendido e creativo autodidatta che compone però a orecchio e d’istinto?

Gli osservatori da parte loro osservano, appunto, ma in silenzio. Perplessi, cauti, sconsolati? Non si sa. Certo siamo in un momento delicatissimo, specialmente nel contesto italiano, in cui sarebbe necessario riposizionare le cose, metterle nelle giuste caselle e in prospettiva, spiegare agli osservatori/operatori esterni che qui però vengono a gestire la cultura di un genere, qual è l’ambito reale in cui si muovono, la storia, la visione che di questo genere si è sviluppata negli ultimi trent’anni, come ci collochiamo nel panorama internazionale e come recepiamo indicazioni e stimoli esterni.

Se l’intenzione veneziana era conferire un Leone d’oro a un italiano, sarebbe stato più opportuno andare oltre le attuali programmazioni di festival à la page e dei passaparola di operatori con la sindrome di Diaghilev e vedere chi davvero ha già lasciato un segno (almeno un paio di nomi li avrei). Ma così è. Tutto resta melmoso, silente, oscuro come le acque ferme della Venezia nella quale la cerimonia di premiazione avverrà il 21 giugno prossimo. Con un unico esplicito dissenso, al momento, in arrivo dalla rete. Prendendo lo spunto dal Ten Years Challenge ecco che in un post da un lato appaiono due giovani Kylian e Forsythe; dall’altro Sciarroni: il messaggio è lampante e… lapidario.

Da parte sua Sciarroni, oggi, è appunto nel mezzo del suo cammino, e portato avanti con istinto, talento e con quella naiveté volutamente ribadita, comunque, e che appartiene appunto agli individualisti. Per ora, costeggiando azioni già praticate e sperimentate da altri (i maestri del postmodern incombono) e declinandole con gustose variazioni sta solo sviluppando teoremi. E solo alla fine (più lontana possibile ovviamente…) sapremo quanto e come tutto questo ha influenzato e mutato la scena della danza nazionale e internazionale.