La monaca di Monza, regia di V. Malosti

La monaca di Monza

Valter Malosti torna a Testori con una messinscena affascinante e necessaria, che punta su una parola forte, lussureggiante, detta da una superba Federica FracassiMaria Grazia Gregori

Come debutto dell’interessante “Progetto Testori” ideato da Andrée Ruth Shammah in collaborazione con la Fondazione Giovanni Testori e che comprende spettacoli, recital di poesie, riprese televisive di spettacoli e incontri, è andato in scena al Teatro Franco Parenti uno spettacolo emozionante e notevole: La monaca di Monza, regia di Valter Malosti con la superba interpretazione di Federica Fracassi. Un testo di cui ricordo la messinscena di Luchino Visconti con Lilla Brignone e quella di Elio De Capitani con Lucilla Morlacchi. La scelta di Malosti è coraggiosa: curarne l’adattamento a tre voci e realizzarlo in tre spazi orizzontali che assomigliano a tre alti loculi mortuari dove agiscono i personaggi che solo raramente escono andando da uno all’altro, il che succede solo per i due protagonisti. Lei, suor Virginia De Leyva, figlia di nobili spagnoli che in quello scorcio di Seicento in cui la storia si svolge abitavano fra l’altro il palazzo che apparteneva alla famiglia della madre, che sorge di fronte alla Scala (ancora oggi Palazzo Marino). Lui, Gian Paolo Osio, nobile “monzasco”, come scrive Testori, corrotto e corruttore, vittima dei propri vizi, lei vittima di quella crudele legge cosiddetta del “maggiorasco” che lascia ogni bene di famiglia al figlio maschio maggiore e costringe gli altri figli, soprattutto le femmine, al chiostro; quasi oggetti senza alcuna possibilità di scegliere il proprio destino.

La scelta affascinante di mettere in scena questi tre grandi loculi dove i personaggi vivono le loro passioni e i loro intrighi, questa specie di immobilità oserei dire da tragedia classica che si scompone e si spezza nei momenti più forti del testo, sottolineata da suoni inquietanti, è la chiave scelta dalla regia, che punta tutto sulla parola che ci arriva forte, a staffilate e ci colpisce. Una parola lussureggiante, indomita, erotica, che non fa sconti, dove si confrontano i desideri, le angosce, le scelte delittuose, le violenze carnali, la passione senza scampo che non lascia spazio ad alcuna pietà. Storia che affascinò anche il Manzoni che, nei “Promessi sposi” ritrasse Virginia con il nome di Gertrude.

“Avete voi mai visto la più bella cosa?” dice lei di lui. E l’amore fatale, che non si può combattere, prende i due protagonisti e li coinvolge in un rapporto violento, senza speranza, senza via d’uscita, pronti per questa passione a uccidere persino, affinché la loro colpa resti nascosta. Sono loro le due figure in qualche modi diaboliche che nel Monastero alle porte di Monza decidono di uccidere o di comperare il silenzio delle novizie che suor Virginia dovrebbe formare, educare nell’amore di Dio fino a quando verranno scoperti e saranno lui tragicamente giustiziato, lei condannata a essere reclusa a vita nella cella di un convento in assoluta clausura senza mai poter vedere né parlare con nessuno.

Qui i due protagonisti e la novizia Caterina raccontano la loro storia da morti, morti che ritornano per svelare se stessi. E in quei tre spazi le violenze, l’amore, la passione, riempiono di sé il palcoscenico per scendere come una provocazione vera su di noi con una forza incredibile (ottimo il lavoro drammaturgico del regista), e qui si intrecciano i due piani di questa storia: quella vera seicentesca che si svolge però in un luogo dove il Lambro scorre, un fiume ormai inquinato, dove, come negli anni Sessanta (e pure oggi, ahimè), la natura va in rovina e le emissioni delle fabbriche rendono l’aria irrespirabile, in quei paesaggi urbani e no, cari allo scrittore.

Nei loro loculi, i personaggi, tutti già morti, si muovono e parlano: lei mossa da un’inquietudine indecifrabile fortemente fisica ma anche spirituale, blasfema, che chiede addirittura a Dio di discolparsi di fronte a lei per la sorte che le è toccata; lui, Gian Paolo, responsabile del suo dolore, del suo destino: il mascalzone, il tentatore, il debosciato che racconta in modo quasi romantico la folgorazione che l’ha preso alla vista di questa donna bellissima, la nascita di una passione che non dà tregua, di figli segreti. E c’è la novizia Caterina, che minacciando di rivelare la loro storia, in realtà vorrebbe condividere un po’ di quella passione e che verrà per questo ingannata e uccisa.

Scegliendo la dimensione a tre personaggi e dunque a tre voci, Malosti, che ha già indagato il mondo testoriano in tutte le sue forme teatrali, poetiche e pittoriche, ha costruito uno spettacolo affascinante, ma soprattutto – e per me è una grande merito – necessario, e ha guidato gli attori Vincenzo Giordano che è Gian Paolo Osio e Giulia Mazzarino che è Caterina, entrambi molto convincenti, con intelligenza e sensibilità. Federica Fracassi, che di Testori è già stata interprete eccezionale dei Tre Lai, dà di suor Virginia un’immagine di rara forza, di inquieta fisicità, di forte personalità e duttilità che non si possono dimenticare.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 3 marzo 2019. Foto di Noemi Ardesi

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La monaca di Monza
di Giovanni Testori
adattamento per tre voci e regia Valter Malosti
con Federica Fracassi
e Vincenzo Giordano, Giulia Mazzarino
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Gianluca Sbicca
cura del movimento Marco Angelilli
progetto sonoro Valter Malosti
suono e programmazione luci Fabio Cinicola
produzione Teatro Franco Parenti / TPE – Teatro Piemonte Europa / Centro Teatrale Bresciano / Teatro di Dioniso con il sostegno di Associazione Giovanni Testori