La versione italiana del testo celeberrimo di Cechov con la regia di Valter Malosti, in scena a Torino, risente di un fraintendimento di fondo sul tema del “vaudeville”, andando in più direzioni senza sceglierne una definitiva – Maria Grazia Gregori
Lo sappiamo: quando leggiamo scritti, riflessioni, note di regia che hanno come soggetto il teatro di Cechov, i suoi testi che sembrano così semplici e invece sono misteriosi, paradossalmente, almeno per chi scrive, il termine più usato è quello di vaudeville. Bisogna però intendersi su questa parola che non sta per ridanciano, non significa tanto prendere un testo contromano a tutti i costi rendendolo divertente. Insomma c’è vaudeville e vaudeville e a questa definizione così abusata bisognerebbe aggiungere, credo, almeno l’aggettivo “nero” altrimenti è come se ci si trovasse di fronte a un quadrato senza un lato. Ora il lato nero, quella disperazione sottile che può essere impalpabile, quell’andare verso il nulla senza punti di riferimento, quel sentire di essere sull’orlo di un baratro senza sapere cosa fare per non cadere giù, inconsapevoli, come diceva l’autore al suo amico Suvorin riflettendo sulla società del suo tempo, è semmai una disperazione travestita, talvolta alleggerita, talvolta grottesca, talvolta scomposta ma mai esclusivamente “vaudevillesca” nel senso comune di questa parola, anche se l’autore talvolta la invocava stizzito per l’eccessiva lentezza e le infinite azioni degli spettacoli di Stanislavskij o di Nemirovic Dancenko. Vaudeville, insomma, come parziale alleggerimento, come risvolto della psicologia del personaggi.
Il giardino dei ciliegi nella versione italiana e con la regia di Valter Malosti, attualmente in scena al Teatro Carignano di Torino risente di questo fraintendimento andando in più direzioni senza sceglierne una definitiva. Ma pensare a uno spettacolo “aperto” con Cechov rischia di portarci fuori strada.
Dico subito che Valter Malosti è un regista che stimo: ho sempre apprezzato, per esempio, il modo lucido e provocatorio con il quale ha saputo misurarsi con il teatro di Pasolini e di Testori ma anche con un certo Shakespeare e con la nuova e inquieta drammaturgia di Tarantino e Jon Fosse e, in generale, con una drammaturgia che fa sua la visceralità, il negativo, la solitudine, l’incapacità di comunicare. E allora se un regista come lui pensa al vaudeville sarebbe stato interessante vedere il Giardino ribaltato, semmai, in una chiave alla Mejerchol’d: fisicità all’ennesima potenza, corpo in primo piano in tutta la sua capacità espressiva che, talvolta, i movimenti studiati da Alessio Maria Romano sembrano suggerire all’improvviso, con quel parlare con le mani, con quella rottura della compostezza che improvvisamente potrebbero incrinare se non rompere la corteccia dei personaggi.
In questa ricerca si distingue quell’attrice sensitiva e allo stesso tempo profonda che è Elena Bucci, che interpreta la volubile spendacciona Ljuba tornata a casa da Parigi dopo il tradimento dell’amante con cui ha sperperato allegramente ogni suo avere. Come contraltare ecco il Lopachin di cui Fausto Russo Alesi rende bene la grettezza e l‘orgogliosa, irresistibile ascesa di ex schiavo della gleba, mentre a un veterano come Piero Nuti tocca la parte del vecchio servitore Firs, che qui, oltre a proteggere il suo padrone, ha anche il compito di darci il tempo, la situazione, il luogo, lo svilupparsi degli eventi, una specie di memoria dell’autore che si fa memoria collettiva. Il Gaev di Natalino Balasso invece è sommesso, superficiale, un buono a nulla senza identità. Più convincente Giovanni Anzaldo l’eterno studente Trofimov, più fragili Federica Dordei (Anja), Roberta Lanave (Varja) mentre Eva Robin’s è una scriteriata governante abile nei giochi di prestigio.
E poi – che dire – Cechov è pur sempre Cechov – più che mai in questo testo che è la sua ultima opera scritta prima della morte e che rischia di assumere un valore testamentario. Qui il grande protagonista, peraltro muto – il giardino destinato a essere lottizzato – non si vede ma è l’esatto speculare di quel mondo che va in rovina sull’onda della musica suonata da un’orchestrina ebraica, insieme alla scena di Gregorio Zurla mentre dalla soffitta, al risuonare delle seghe che abbatteranno gli alberi appare, con un rumore premonitore e un po’ inopinatamente – addavenì –, la grande testa di Lenin.
Visto al Teatro Carignano di Torino. Repliche fino al 30 ottobre 2016