Il sorprendente “Kriminal tango” di Fanny & Alexander su Fred Buscaglione, “Trincea” di Marco Baliani sulla Grande Guerra e “Giro di vite” di Henry James riletto da Valter Malosti festeggiano nel modo migliore i vent’anni del festival delle Colline torinesi – Maria Grazia Gregori
È giugno, è tempo di Colline torinesi, l’agguerrito festival piemontese che anno per anno (e gli anni sono ormai venti) ha saputo presentare al suo pubblico un’immagine del teatro, non solo italiano, in movimento assumendosi anche dei rischi andati quasi sempre a buon fine. Il ventennale del festival di Sergio Ariotti e di Isabella Lagattolla è costruito dunque mettendo in campo linee di lavoro e di ricerca diverse, sostenuto da un pubblico curioso e attento cresciuto negli anni al quale, anche in questi tempi difficili, propone nella sua ricerca di nuovi linguaggi e di nuove strade un’immagine non rinunciataria ma, al contrario, fortemente determinata e aperta al futuro del teatro, garantendo anche qualche sorpresa, magari inaspettata. Succede per esempio con Kriminal Tango del gruppo ravennate Fanny & Alexander: una ventata di aria fresca per il personaggio attorno al quale è stato costruito, per il sapiente gioco drammaturgico che lo sostiene e, non ultimo, per la bravura del suo interprete Marco Cavalcoli.
Il personaggio attorno al quale gira Kriminal Tango, titolo di una sua fortunatissima canzone, è quello di Fred Buscaglione, grande e mai dimenticato eroe dei night dei grintosi Sessanta, innovatore, con il suo fantastico paroliere Leo Chiosso che gli forniva storie fantastiche per canzoni che andavano contro il finto romantico e la melensaggine con un’ironia travolgente, un ritmo che guardava all’America, ma che si esaltava proprio lì, nel luogo dove lo spettacolo è andato in scena, che oggi si chiama Le Roi Music Hall (ieri Lutrario), messo in piedi dall’architetto Carlo Mollino nel 1959 e rimasto miracolosamente e intelligentemente identico: divanetti a due o tre posti con davanti, un tavolino di fronte al palcoscenico, bellissima balconata e tante lampade cilindriche e multicolori che scendono dal soffitto illuminando lo spazio.
Su quel palco era iniziata la gloria di “Fred dal whiskey facile” (ma gli piaceva anche il gin), uno che voleva andare in America ma che, intanto, affilava a Torino, insieme al suo complesso degli Asternovas, il suo stile con canzoni – le uniche amate anche da una generazione che tifava per Elvis Presley e per i Beatles -, che erano veri e propri racconti di bulli e pupe, di stangone coscia lunga che sognavano il visone, di ragazzi da bar con il sigaro in bocca e cappello sulle ventitré, malavitosi dal cuore dolce, donne vendicative con la pistola, prendendo amabilmente in giro giovini signori sciupafemmine, ma anche sentimentali papà che cantavano una dolce ninna nanna ai loro pupi, grazie a un humour sorridente a pieno di invenzioni. Insomma Fred Buscaglione duro e puro.
In scena Marco Cavalcoli, truccato “alla Buscaglione”,una notevole somiglianza (in magro) con il mitico Fred, accompagnato dal complesso Bluemotion, si rivela irresistibile per simpatia e un cantante che non ci si aspettava. Costruisce dunque, con l’aiuto in sala di una accattivante e inaspettata Chiara Lagani, una sirena in tacchi a spillo (lo spettacolo è firmato da lei e da Luigi De Angelis) , che passa tra i tavoli a raccogliere soldi e a offrire da bere, un storia sbalestrata e divertente, una specie di specchio irridente della società di allora non tanto lontana da quella di oggi dove la rapina non è immaginaria né romantica ma maledettamente vera, giocando anche con le parole, costruendo testi che mescolano motivi e canzoni e dove, a ben guardare, il protagonista è proprio lui, il denaro. Prima tappa, dunque, di quel discorso sul denaro che sarà la nuova ricerca del gruppo sulla diversità dei linguaggi usati nella comunicazione di massa.
Input diversi, si diceva. Da questo punto di vista decisamente agli antipodi di Kriminal Tango è Trincea, di e con Marco Baliani, odissea di un soldato della Grande Guerra del 1915-1918, che è anche un grido contro la violenza stolida e sanguinaria dei conflitti, dove c’è un uomo piccolo piccolo che racconta e vive la follia di un’epoca vista dalla parte degli ultimi. Un mondo grigio, immerso in un grigio totale, polveroso, di morte e lui che appare come un morto vivente da una botola-trincea, grigio su grigio, circondato da immagini sgranate d’epoca altrettanto grigie (scene e luci di Lucio Diana, regia di Maria Maglietta) che racconta il vivere terribile di chi è partito per la guerra mentre gli imboscati si sono arricchiti, proprio come succede in Tamburi nella notte di Brecht e lui, invece, è costretto a un’atroce sopravvivenza in attesa della fine, fra i rifiuti organici di tutti, il sangue, la morte, o a una vita-non vita, da pazzo, da cieco, da storpio. Altro che scatola magica, quella in cui si muove Baliani, in una prova di grande spessore che fa passare in secondo piano qualche punta retorica, è una vera e propria scatola degli orrori che ha divorato a suon di musica (dalla Traviata al Nabucco alla colonna sonora inventata da Mirto Baliani, sue anche le immagini) un’intera generazione che avrebbe voluto essere del tutto antieroica, vivere la vita, battersi per la vita e non per la morte del nemico, senza essere vittima dei deliri di onnipotenza di qualche generale, ma che intanto con il proprio sacrificio cambiava i confini e la vita del nostro Paese.
Un vero e proprio incubo, un noir raffinatissimo è invece Giro di vite, magnifico racconto di Henry James da cui Benjamin Britten trasse un’opera rimasta famosa. Su questo racconto carico di suspence – sull’attesa di qualcosa che sta per accadere e non accade che deve essere detto e non è detto – di quella che via via si mostra come une vera e propria sonata di fantasmi, che coinvolge una giovane istitutrice senza nome e due bambini rimasti orfani, Valter Malosti ha costruito uno spettacolo per attrice sola (Irene Ivaldi) , nel quale si inserisce, talvolta, come invisibile narratore. La platea del Teatro Gobetti è vuota mentre gli spettatori stanno seduti sulla gradinata e l’attrice, che dà voce a tutti i personaggi, sta su una sedia, posta su di una piattaforma nel mezzo della platea, quasi imprigionata da due microfoni laterali dove, praticamente immobile (un vero tour de force di tensione per lei), “fa le voci” comprese quelle dei bimbi, elaborate elettronicamente.
La scelta registica, che pensiamo sia un primo abbozzo, una prima tappa per un viaggio tutto da fare, suggerisce comunque un itinerario simile a un sabba demoniaco dentro i fantasmi che si annidano nel pensiero della protagonista e dei piccoli Miles e Flora, continuamente combattuta fra realtà e finzione, fino al tragico finale.