Il lavoro di vivere

Che fatica la vita a due!

L’esemplare regia di Andrée Ruth Shammah ci ha permesso di conoscere uno dei maggiori drammaturghi israeliani, Hanoch Levin, molto lodato e altrettanto criticato nel suo Paese. In una scena ridotta a ring, si fronteggiano due anziani coniugi: la vitale Fulvia Carotenuto e un magistrale Carlo CecchiMaria Grazia Gregori

Con un titolo quasi “alla Pavese” – Il lavoro di vivere Andrée Ruth Shammah non solo firma una regia esemplare per la profonda semplicità con cui rappresenta la storia di un uomo e di una donna qualunque insieme da trent’anni, abituati dunque a non nascondersi nulla neanche la reciproca decadenza, ma ci permette  di conoscere un autore, l’israeliano Hanoch Levin, poco rappresentato nel nostro paese e, soprattutto, di vederlo interpretato da Carlo Cecchi, uno dei pochi attori italiani che possa recitare l’infinitamente basso e l’infinitamente alto.

Nella vicenda di Yona e Leviva tutta chiusa dentro la stanza da letto di due coniugi sessantenni, dove lui può chiamarla “culo” o “stupido animale” e lei “pene invecchiato” in un rituale reciprocamente masochistico ma anche molto quotidiano, i due ormai persuasi che la vita che avevano sognato fosse un fiume è stata invece “una pozzanghera” si dilaniano. Quella stanza – dove la goccia che cade inesorabile in bagno e l’ossessiva ripetizione di cose a cui si è rinunciato di porre rimedio scandiscono il passare del tempo – è una specie di ring dove lui e lei si affrontano con una predilezione per i colpi bassi, con un’ironia e una ferocia  allo stesso tempo urticanti e quasi comiche.

Hanoch Levin, scomparso nel 1999 a 56 anni, scrittore oltre che di testi teatrali di romanzi e di canzoni, nato a vissuto a Tel Aviv, figlio di ebrei polacchi, è il maggior drammaturgo israeliano ma questo non l’ha difeso da critiche e censure feroci da parte di chi non poteva accettare la sua distruzione dei molti tabù della sua gente, di un certo modo di vivere e di pensare che gli era impossibile condividere pur amando appassionatamente la sua terra. Un uomo libero, dunque, e questa libertà e sincerità d’approccio rende vivi, veri i suoi personaggi che ci vengono presentati in Il lavoro di vivere ma anche in altri testi (ne ha scritti ben 56): gente semplice che vive gomito a gomito, magari non comprendendosi mai, situazioni dove tutto sembra realistico ma in realtà è governato dal paradosso, dallo scarto inquietante dell’ironia.

Seduti a semicerchio di fronte a una pedana inclinata verso il basso (scena di Gianmaurizio Fercioni, luci di Gigi Saccomandi)  dominata da un enorme lettone, gli spettatori guardano e in certi casi addirittura “spiano”, dietro le veneziane di questa casa immaginaria, i personaggi, i loro battibecchi, la disperazione talvolta allegra, talvolta tignosa, ascoltano le loro domande  che sembrano ingenue e invece sono agghiaccianti fino alla domanda che si pone Yona e che è la chiave di tutto “Ma cos’è successo? Dov’è finito tutto quello che mi è stato promesso? Dov’è finita la mia bella favola?” Che non è solo nostalgia infantile di un sogno, ma anche rivelazione traumatica dell’incapacità di vivere di quest’uomo con la valigia al piede, sempre pronto, apparentemente, ad andarsene ma in realtà destinato a restare  perché quello che teme soprattutto  è “la paura di rimanere soli nel buio della notte”.

Quando il gioco fra i due si fa duro e ferocemente  chiaro,  l’arrivo di un terzo personaggio,  Gunkel, sembra complicare tutto. Lui suona alla loro porta nel cuore della notte perché vede la luce accesa, perché ha mal di testa, perché vorrebbe l’aspirina ma anche qualcosa di caldo e soprattutto un po’ di umano calore ma è come atterrato dall’egoismo dei due che vogliono sbarazzarsi al più presto di lui (che chiede insistentemente la restituzione di un cappello prestato anni prima), per continuare il loro gioco crudele. L’uscita di questo personaggio ripiomba Yona e Leviva  nella loro solitudine affollata da molti fantasmi fino alla morte per infarto di lui e il richiamo inutile, angosciante di lei che gli grida “ci resta ancora da invecchiare insieme”.

La vicinanza di chi guarda agli attori gli permette di osservarli con un’attenzione e una tensione insolite, lo fa sentire quasi “dentro”lo scorrere dell’azione. Così non ci sfugge l’intercalare partenopeo di Fulvia Carotenuto, con la sua vitalità per nulla sopita, né l’apparizione del Gunkel allo stesso tempo rassegnato e vendicativo del bravo Massimo Loreto. E poi c’è lui, il magnifico Carlo Cecchi, che riempie di sé tutto lo spazio. Con il suo cappellaccio sulle ventitré si muove sulla pedana con assoluta naturalezza, dentro e fuori un personaggio di una complessità profonda al quale la sua voce altalenante, la sua parlata strascicata e quasi straniata offrono una dilatazione inaspettata, una dimensione “altra” che affascina e che ci cattura.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 21 dicembre 2014

IL LAVORO DI VIVERE di Hanoch Levin, con Carlo Cecchi al Parenti fino al 21 dicembre 2014

Il lavoro di vivere
di Hanoch Levin
traduzione dall’ebraico e adattamento Claudia Della Seta e Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah
con la collaborazione
per l’allestimento scenico di Gianmaurizio Fercioni
per le luci di Gigi Saccomandi
per i costumi di Simona Dondoni
musiche di Michele Tadini
Aiuto regista Benedetta Frigerio
Assistente alla regia Diletta Ferruzzi
Direttore di scena Marco Pirola
Macchinista Paolo Roda
Elettricista Domenico Ferrari
Fonici Davide Marletta, Matteo Simonetta
Sarta Francesca Simoni
Responsabile di Produzione Maria Zinno
Foto di scena Fabio Artese
Costumi della Sartoria del Teatro Franco Parenti
Produzione Teatro Franco Parenti