Beatitudo

Beatitudo

L’ultimo spettacolo della Compagnia della Fortezza, diretto come sempre da Arrmando Punzo, trasposto dall’usuale cornice del carcere di Volterra al palco assume nuove valenze che lo confermano evento indimenticabileRenato Palazzi


Non avevo mai visto (non avevo mai voluto vedere) uno spettacolo della Compagnia della Fortezza sottratto alla sua ambientazione consueta, il cortile del carcere di Volterra, e trasposto sul palco di un teatro. Mi aspettavo che il lavoro di Armando Punzo con gli attori-detenuti ne uscisse particolarmente sacrificato, e da appassionato di questa esperienza ho sempre evitato di seguirla in un contesto che giudicavo inadatto. Ma assistendo a Beatitudo, il grande affresco ispirato alle opere di Borges che Punzo ha presentato al Teatro Menotti, da sempre il suo punto di riferimento milanese, ho dovuto in parte ricredermi.

In effetti nel passaggio dal vasto spazio aperto, orizzontale della spianata fra le mura della fortezza medicea alla dimensione ridotta di una comune ribalta l’acceso immaginario sonoro e gestuale che si sviluppa di solito nell’intera estensione di quel luogo carico di riferimenti simbolici perde qualcosa della sua inquieta suggestione, così come si smarrisce l’incombente senso di oppressione legato alla natura del luogo stesso. Ma il palco consente una concentrazione quasi esplosiva dell’azione. Rende possibili degli effetti di luce, delle invenzioni visive, dei movimenti che sarebbero inconcepibili all’aperto. Pone in risalto altri aspetti: rende metaforico ciò che là è drammaticamente reale, e rende reale ciò che là è sottilmente metaforico.

Sono inoltre rimasto stupito dalla sorprendente risposta del pubblico. Dire che per entrare in sala bisognava fendere una folla non rende l’idea a sufficienza: per tutti e tre i giorni delle repliche non c’era un posto libero, la coda arrivava fino a metà della strada. Alla fine dello spettacolo, dieci minuti di ovazioni, con la gente tutta in piedi. A questa reazione contribuiva certo la commozione legata alla condizione di reclusione degli interpreti, benché lo spettacolo non facesse nulla per sottolinearla. Ma sono convinto che l’adesione della platea andasse oltre, e riguardasse ancor più lo spessore artistico dell’operazione, facendo quasi dimenticare il suo sofferto retroterra sociale e culturale. È comunque il segno che l’attenzione per questa compagine così atipica sta uscendo a poco a poco da una cerchia ristretta di frequentatori abituali.

Avevo seguito, due estati fa, una delle ultime prove di Beatitudo, quando attori che probabilmente in precedenza non avevano mai preso in mano un libro stavano ancora scegliendo o scartando dei brani dei racconti di Borges, annotandone le frasi salienti su foglietti appesi a un corridoio del carcere. Componevano una drammaturgia in divenire, in cui – più o meno come era avvenuto l’anno prima per i testi shakespeariani – ciascuno proponeva quelle immagini o situazioni che più sentiva appartenergli, usando come unico criterio di selezione la possibilità di evocare una assoluta libertà fantastica, in paradossale contrasto con lo stato di detenzione.

Giustamente, Punzo non ha voluto sceneggiare i racconti di Borges, ma ne ha usato i frammenti, le citazioni come varchi per addentrarsi in un universo onirico e fiabesco che trascende di continuo i confini della nostra percezione, dissolvendo la sostanza del reale. Per vaghi accenni, per labili allusioni il regista ci trascina in un tempo senza tempo, o piuttosto in un tempo che pare precedere l’origine stessa del tempo, dando vita a un’intero popolo – un po’ orientale, un po’ africano, un po’ affiorato dal nostro inconscio collettivo – di armigeri, di sapienti, di mistici, di principesse indiane, di saggi alla ricerca del segreto per conquistare l’oblio, l’unico accesso alla propria identità.

Sull’onda delle struggenti musiche di Andrea Salvadori si dipana un incessante susseguirsi di apparizioni labili, fugaci, un uomo tutto dipinto di bianco che vuole andare alla ricerca di una città solcata da un misterioso fiume, un uomo che porta un grande nido di uccelli, un candido Minotauro, e poi schiere di ragazze che portano gli infiniti libri e libroni della Biblioteca di Babele, in attesa che venga trovato il libro che contiene e racchiude tutti gli altri libri concepiti dall’umanità. La presenza più emblematica di questo universo fantastico, quella che imprime il suo marchio arcaico sull’intero spettacolo, è una sorta di armata fantasma fatta di soldati coi volti dipinti di rosso e vestiti di esotiche tuniche rosse e arancioni, che, armati di lunghissime lance di bambù, compiono insondabili evoluzioni lungo enigmatici percorsi rituali.

Manca, nella versione teatrale, il fondamentale elemento liquido, l’acqua che a Volterra invadeva il cortile, e in cui si muovevano i personaggi. Qui, in compenso, c’è un incessante proliferare di immagini ingegnose, valorizzate da un andamento necessariamente più serrato e da uno scarno ma efficacissimo impianto scenografico. Intrappolata nei pochi metri quadrati del palco, la tracimante vena creativa del regista suggerisce comunque la dimensione implicitamente costrittiva della rappresentazione originale. L’intensissimo finale rimanda a quello che è ormai il suggello ricorrente degli ultimi spettacoli di Punzo, in cui lui e il bambino che è diventato un protagonista fisso di questo teatro restano fermi in proscenio, spalle al pubblico, a osservare, attraverso un velo di nebbia, i presagi di un incerto futuro.

Visto al Teatro Menotti di Milano

Beatitudo
liberamente ispirato all’opera di Borges
drammaturgia e regia: Armando Punzo
musiche originali e sound design: Andrea Salvadori
scene: Alessandro Merzetti, Armando Punzo
costumi: Emanuela Dall’Aglio
coreografie: Pascale Piscina
con: Armando Punzo e gli attori della Compagnia della Fortezza di Volterra
Ensemble di Percussioni Quartiere Tamburi
canto: Isabella Brogi