Kronoteatro

Talis pater, talis filius

Il secondo atto della Trilogia di Kronoteatro “Pater familias_dentro le mura” riprende coerentemente lo stile di “Orfani”, calando la riflessione sul disgregamento familiare in una possente dimensione extra-temporale Renato Palazzi

 

Le stesse caratteristiche di Orfani, grosso modo, si ritrovano nel secondo atto – Pater familias_dentro le mura – di quella che in effetti si configura come una vera trilogia, dotata di una sua continuità, di una sua coerenza di stile, di un suo disegno complessivo di ampio respiro: anche qui c’è un richiamo alla classicità, che in questo caso consiste nei continui riferimenti all’immagine del Minotauro e del labirinto, calata però in una situazione di brutale attualità, la violenza del branco, i ciechi impulsi del bullismo. Anche qui l’impianto complessivo è improntato a una forte connotazione fisica, a un’aggressività bestiale, fine a se stessa che esclude qualunque pensiero o sentimento.

Se in Orfani la figura del padre-padrone era imperiosa e sinistramente dominante, in Pater familias la crudeltà spietata spinta fino all’omicidio viene esercitata dal figlio e dai suoi compagni, dunque da quella generazione dei giovani che alla fine del primo spettacolo vedevamo già istruita negli istinti di guerra. Il padre che tenta invano di aggrapparsi a dei valori, la fatica, il lavoro manuale, è in partenza uno sconfitto, uno sfigato, come dicono loro, e perciò destinato al ruolo di vittima sacrificale: nel cuore del labirinto più o meno immaginario che egli stesso si era creato, luogo di oscure fantasie, in cui lui vagheggiava di assumere la maschera di un vigoroso Minotauro, in grado di abbattere il Teseo-figlio incautamente finito alla sua mercé, sarà invece quest’ultimo, spalleggiato dai suoi simili, ad abbatterlo a colpi d’accetta come un toro sfiancato condotto al macello.

E l’idea del labirinto mentale, dell’opprimente architettura di piani e di pareti che si allargano e si restringono attorno alle figure umane che vi sono tutte – carnefici e vittime – parimenti rinchiuse, parimenti imprigionate, è anche l’asse portante di questo allestimento, fatto di una serie di scuri tavolacci di legno consunto, che sotto i ripiani, rovesciandosi, rivelano degli emblematici specchi. Ad ogni scena successiva i tavoli vengono spostati, ricombinati in innumerevoli figurazioni: appoggiati gli uni sugli altri, gli uni accanto agli altri, disposti in verticale o in orizzontale formano strutture a più piani, anfratti sovrapposti o giustapposti, percorsi tortuosi e cubicoli soffocanti. Ribaltati all’improvviso, piombano rumorosamente al suolo, suscitando negli spettatori delle sensazioni di minaccia.

Come Orfani, anche Pater familias – che è di un paio d’anni dopo – sembra presentare degli elementi stilistici che rimandano a codici teatrali non del tutto appartenenti al nostro presente, seppure in misura minore rispetto al precedente. Ma, come detto, l’inserimento in un percorso unitario consente di dare altre chiavi di lettura anche a questi aspetti formali, li cala quasi in una dimensione extra-temporale tutta interna a questo progetto del gruppo. E il progetto in sé colpisce per un che di alto e possente e non tranquillizzante che vi si coglie, al di là dei pregi e limiti delle singole messinscene.

 

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Pater familias_dentro le mura
drammaturgia: Fiammetta Carena
regia: Maurizio Sguotti
movimenti: Davide Frangioni
con: Tommaso Bianco, Alberto Costa, Vittorio Gerosa, Alex Nesti, Nicolò Puppo, Maurizio Sguotti
luci e musiche Enzo Monteverde
produzione Kronoteatro