Per Pan di Bob Wilson

Peter Pan di Bob Wilson: un privilegio per pochi

È straordinario lo spettacolo andato in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che ha visto riuniti ancora una volta il regista texano e il formidabile Berliner Ensemble. Tuttavia, viene da chiedersi: quale teatro italiano potrà sostenerne i costi esorbitanti?Renato Palazzi


C’è qualcosa di impagabile, e insieme di sottilmente inquietante, nel privilegio di avere potuto assistere allo straordinario Peter Pan che Bob Wilson ha allestito col Berliner Ensemble, ed è stato trionfalmente presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. C’è qualcosa di impagabile, perché la collaborazione fra il regista texano e la compagnia tedesca, al di là di ogni altra valutazione, basta di per sé a garantire dei risultati artistici incomparabili: tra loro si innesca uno scambio, un assommarsi di qualità diverse che aggiunge qualcosa a entrambe le parti, ne arricchisce comunque le doti tecniche e la gamma espressiva. Ma c’è anche qualcosa di inquietante, perché sembra di trovarsi di fronte a un evento fuori misura, sproporzionato rispetto a tutto ciò che gli accade intorno.

Wilson ha ricavato dalla celeberrima fiaba di James Matthew Barrie una sorta di trascinante musical, o di acre opera rock, uno spettacolo di eccezionale impatto, che si avvale di mezzi a dir poco grandiosi: un organico di ventun formidabili attori, che sono tutti anche degli impeccabili cantanti, un’orchestra di nove elementi, e poi il solito, denso apparato di immagini, luci, suoni, movimenti, effetti scenografici tipico del lavoro di Wilson. A tutto questo si aggiungevano le pregevoli canzoni, per niente dolciastre o banalmente accattivanti, del duo americano folk-psichedelico CocoRosie. Ne è derivato un incessante fuoco di fila di trovate, un incalzante meccanismo creativo da cui si restava abbacinati e quasi travolti, senza neppure avere il tempo di pensare.

La trama era quella, ben nota, dell’onirica fuga notturna di Wendy Darling e dei suoi fratelli, che il ragazzo incapace di crescere guida a volare fuori dalla finestra della loro cameretta, in viaggio verso l’Isola che Non C’è, i Bambini Sperduti, gli indiani, i pirati di Capitan Uncino. L’universo fantastico di Barrie, in questa messinscena, non ha niente di ingenuo o di puerile, ed è lontano anni luce da qualunque cliché disneyano. Il tema dell’eterna infanzia, del rifiuto di diventare adulti si adatta alla perfezione a una certa cifra sognante e nostalgica che da sempre appartiene profondamente al regista. E gli attori del Berliner, dal canto loro, paiono metterci naturalmente un di più di asprezza, come una scorza ruvida, non sentimentale, di matrice inconfondibilmente epico-brechtiana.

Nelle sue quasi tre ore di durata, lo spettacolo propone invenzioni mirabolanti, come la scena, per molti aspetti esemplare, in cui i fanciulli in volo sfilano adagiati sopra amene nuvolette issate su carrelli che gli inservienti, brechtianamente, spingono a vista, o come la folgorante apparizione delle sirene, o quella di Campanellino rinchiusa in un’enorme lampadina, auto-citazione da Edison, un classico Wilson d’annata. Alle suggestioni poetiche si mescolano guizzi di truce buffoneria, come la stessa figura di Campanellino, interpretata – con un autentico colpo di genio – da un tipo poco raccomandabile, sfrontatamente travestito da fatina. Tutti hanno un trucco eccessivo, espressionista, occhi bistrati, volti di biacca, zazzere variopinte o elaboratamente scolpite.

Lo spettacolo, come sempre avviene per questi exploit del regista, coinvolge, colpisce, diverte, stupisce ma non manca di evidenziare anche la vena cupa, vagamente funerea che segna il destino del protagonista, quella sua inquietudine esistenziale mascherata da fiera indipendenza nei confronti dei ruoli imposti dalla vita, quel suo essersi smarrito in chissà quali meandri dell’inconscio. È emblematico, in questo senso, il rapporto quasi freudiano che lo lega al personaggio più complesso, l’enigmatico Capitan Uncino, tratteggiato come un’ambigua autorità paterna che vorrebbe fare di Peter l’uomo che lui non intende diventare. È eloquente il fatto che egli venga presentato, all’inizio, come un sinistro «angelo oscuro» che fischietta poco prima dell’alba, e canti ripetutamente che «morire è forse l’avventura più grande».

Tutto ciò è fortemente appagante, un piacere per lo spettatore, ma impone anche, necessariamente, qualche riflessione: senza nulla togliere al valore dell’operazione, che è, ripeto, assoluto, viene inevitabilmente da chiedersi – per chi fa questo mestiere – che senso abbia riferire di una proposta alla quale probabilmente chi legge non avrà mai modo di accostarsi, dati i costi esorbitanti, al di là della possibilità di qualunque teatro di investire una somma del genere su un unico prodotto. E viene ancora una volta da interrogarsi sulle finalità di questi festival milionari, che puntano ormai dichiaratamente su alcuni titoli di richiamo destinati a esaurire in poche sere la propria funzione, togliendo spazio a tutto il resto, schiacciando quanto accade – o non accade – nella loro ombra.

Visto al Teatro Nuovo di Spoleto, Festival dei Due Mondi

Peter Pan
di James Matthew Barrie
regia, ideazione, scene e luci: Robert Wilson
musiche e canzoni: CocoRosie
costumi: Jacques Reynaud
drammaturgia: Jutta Ferbers, Dietmar Böck
con il Berliner Ensemble
attori: Antonia Bill, Luca Schaub, Claudia Burckhardt, Anke Engelsman, Johanna Griebel, Winfried Goos, Traute Hoess, Boris Jacoby, Nadine Kieselwalter, Andy Klinger, Christopher Nell, Stephan Schäfer, Luca Schaub, Marko Schmidt, Martin Schneider, Sabin Tambrea, Stefan Kurt, Felix Tittel, Georgios Tsivanoglou, Axel Werner, Lisa Genze.
musicisti: Joe Bauer, Florian Bergmann, Hans-Jörn Brandenburg, Cristian Carvacho, Dieter Fischer, Jihye Han, Andreas Henze, Stefan Rager, Ernesto Villalobos