Natale in casa Cupiello / Latella

Natale in casa Cupiello / 2. Audino

Il critico Antonio Audino torna sullo spettacolo diretto da Antonio Latella. Partendo dalla scelta di collocare la pièce all’Argentina e non all’India, addita antichi vizi e vezzi del teatro italiano, chiamando in causa pubblico e critica


Caro Renato,

mi farebbe piacere estendere ai lettori del tuo sito una nostra conversazione privata nella quale esprimevamo opinioni diverse, per vedere quali idee si possono raccogliere intorno alle nostre considerazioni.

Ti dicevo che a mio avviso collocare uno spettacolo come  Natale in casa Cupiello per la regia di Antonio Latella all’Argentina mi sembra un clamoroso errore strategico, soprattutto per la lunga tenitura che gli è stata affidata e per la pubblicità diffusa in ogni luogo. Non è il caso in questa sede di sottilizzare sul valore o meno dello spettacolo, ma comunque è innegabile che si tratti di un’operazione ardita che richiede attenzione e che presuppone una profonda conoscenza del testo per essere apprezzata in pieno, insomma si tratta di quello che può essere definito come un teatro fortemente sperimentale.

Ora una collocazione adeguata in un teatro con una marcata vocazione alla ricerca, come ad esempio l’India, significherebbe fornire una precisa indicazione allo spettatore che può, se vuole,  confrontarsi in quella sede con linguaggi innovativi  e con operazioni di taglio particolare. Molto del pubblico che in questi giorni affolla l’Argentina rimane invece smarrito, perché immaginava di trovarsi davanti ad una lettura di stampo più tradizionale, ed è evidente che lo smarrimento possa trasformarsi in una forma di rifiuto non solo per lo spettacolo ma in generale per il teatro di oggi.

Credo che il teatro abbia oggi più che mai bisogno di un contesto, di una riconoscibilità, di indicazioni chiare  che avvicinino anziché allontanare, non certo di recinti o steccati, tantomeno di divisioni o di ghetti, ma in una città come Roma dove ormai da anni regna la più totale confusione, in cui la comunicazione teatrale è cosa di pochi per pochi,  sarebbe certo il caso di fare chiarezza, di creare zone diverse, di tener conto che il pubblico non è tutto uguale e che può esistere uno spettatore con gusti meno sofisticati ed estremi del cotè intellettual-studentesco che sembra ormai a molti operatori l’unico “target” possibile, e che comunque questo spettatore meno colto o avvertito ha diritto a spettacoli di alto livello che non siano becere forme di intrattenimento ma che non presuppongano neppure una laurea al Dams o una conoscenza approfondita degli ultimi cinquant’anni di vita teatrale in Europa e nel mondo.

Il problema credo sia tutto qui. Sono convinto che in Italia il teatro abbia subito una profonda degenerazione  per cui se la scena che potremmo definire  “ufficiale” si è man mano estinta, affidata da tempo soltanto a vecchi registi capaci di mettere in piedi  operazioni  polverose e inutili, di rimestare stancamente in una tradizione ammuffita di testi e di abitudini recitative e di messa in scena, d’altro canto sia invece fiorita una larga sperimentazione che si è andata sostituendo in molti spazi  a quella che era una strada più tradizionale. Questo a scapito di un vero e sano rapporto con le tradizioni teatrali italiane. Insomma non essendoci più gli Strehler, i Castri, con Ronconi che rappresenta una sorta di ultimo baluardo, si preferisce dar spazio a linee fortemente caratterizzate del rapporto con la scena anziché cercare di ricostruire un fronte di teatro che non sia soltanto quello attestato nelle postazioni più estreme. Che poi sia storicamente esaurita la linea della “regia critica” è un altro fatto, ma non per questo si può pensare al lavoro oramai sempre più demiurgico del regista come a una spirale di iperboli concettuali da dare sempre e comunque per buone, e soprattutto non si può  ritenere che questa via rappresenti il  teatro contemporaneo, l’unico possibile,  per cui  bene  per chi sta al gioco, e chi non arriva a quell’altezza se ne  tornasse  pure a casa (come regolarmente accade).

Eppure di espressioni che potremmo definire “intermedie” l’Italia è piena, si pensi a registi come CirilloBinasco  o Sinisi, si pensi a quanta nuova drammaturgia facilmente approcciabile e non per questo superficiale è cresciuta in questo Paese, collocabile in zone alle quali cui potrebbero afferire pubblici più vasti e differenziati, da Santeramo a Paravidino, alla stessa Calamaro, o  quanti attori straordinari siano emersi in questi anni , interpreti che hanno reimpostato in maniera nuova linee che hanno radici profonde, come Maria PaiatoGifuni e tanti altri.

Voglio accennare alcune argomentazioni per rafforzare la mia tesi.
In tutto il resto del mondo ci sono vari livelli di teatralità, così a Londra c’è la Royal Shakespeare Company (ci sono passati anche Peter Brook e Declan Donnelan per dirne soltanto due di generazioni diverse) accanto al Royal Court e a tante salette giovanili, così come a Parigi c’è la Comèdie Française  dove di recente Isabelle Huppert interpretava un Marivaux, mentre in tanti altri teatri accadono cose ben diverse. Basta sfogliare la pagine degli spettacoli di un quotidiano di una grande città europea per trovare cento sfaccettature di teatro, quello leggero, il musical, il cabaret, il repertorio, e questo non vuol dire che sia tutta roba da buttar via né tantomeno che siano evasioni per imbecilli incolti colpevoli di non amare Castellucci, ma piuttosto mi pare una testimonianza della vitalità di cento pubblici diversi, magari intercambiabili in diverse zone dello spettacolo che possono senz’altro essere comuni. Che poi io vada appositamente a Parigi a vedere Castellucci è un altro fatto.

Da noi in Italia sembra invece che il teatro sia ormai soltanto uno, ovvero quello della ricerca, ma se affermiamo  questo mi pare che noi stessi non crediamo più nella  forza del teatro stesso, costringendolo in un angolo in cui solo uno spettatore ultra preparato, sempre alla ricerca di sapori forti può avvicinarsi. O meglio perché dobbiamo pensare che il teatro che interessa a noi “intellettuali” debba essere la sola forma di teatro? È questo l’unico termine in cui si può pensare un rinnovamento? O piuttosto uno stabile pubblico non dovrebbe operare strategie più sottili di avvicinamento fra zone diverse della scena, in una reciproca convivenza di stili, modi, maniere, con rimandi di curiosità fra espressioni diverse, con cartelloni che intrecciano percorsi vari tra le varie sale?

Non è possibile dare spazio alla sperimentazione senza ritenere che forme più tradizionali di rapporto col  testo (ad esempio) siano ormai cose da ottuagenari nostalgici e rimbecilliti?  E poi siamo sicuri che il teatro di domani sia quello che a noi sembra? Vorrei ricordare che negli anni in cui, nella ricerca, sembrava impossibile che esistesse qualcosa d’altro rispetto a un lambiccato teatro immaginifico-concettuale venne fuori per genesi spontanea un certo Ascanio Celestini che, tornando alla parola e raccontando storie riunificò magicamente le nuove linee di un rapporto con la scena e con la scrittura con un consenso popolare sorprendente. Insisto: non vorrei che queste mie parole suonassero in difesa dei cascami di un teatro ampiamente superato dai tempi.  Credo di essermi da sempre schierato sulla trincea del nuovo, ma forse troppo frettolosamente stiamo buttando via esperienze preziose che invece un teatro pubblico e nazionale dovrebbe sostenere e alimentare, anzi per le quali dovrebbe costruire progetti appositi.

Ancora qualche puntello al mio ragionamento.
Ci sembrerebbe normale pensare che la musica che si compone in questi anni sia “la musica” e basta, senza definizioni e steccati? e che quindi per rinnovare il panorama delle sale da concerto bisognerebbe eseguire soltanto l’ostico Guarnieri o il più gradevole Battistelli o al massimo Stockhausen per i più retrò?

Ci convincono certe forzate modernizzazioni nelle regie liriche che davvero non servono né allo spettacolo né allo spettatore ma solo a creare un po’ di chiacchiere da foyer e da pagina degli spettacoli e a inseguire l’ormai radicata mania del “famolo strano” per cui la traviata taglia le zucchine in scena e Don Giovanni arriva in motocicletta?

Questi alcuni spunti, ma in fondo la mia idea forse banale e antiquata è che il pubblico vada ascoltato con attenzione, seguito, compreso, il che non vuol dire banalmente assecondato o grossolanamente nutrito, ma soltanto rispettato nelle sue mille forme sociali, culturali, umane. E mi piacerebbe che questo corpo composito e contraddittorio trovasse sempre, da qualche parte, una forma teatrale in cui rispecchiarsi e trovare elementi di riflessione sul mondo e sulle sue trasformazioni.

Grazie. Ciao
Antonio Audino

 

3 commenti su “Natale in casa Cupiello / 2. Audino

  1. vorrei domandare a Latella : “Ma questo pure lo avete fatto voi?…Bravo!
    Condivido che certe proposte di “ricerca” Ma i po’ dicesse si ia fa ricerca lassa sta Eduard .
    Bravissimi gli attori in ogni caso

  2. Caro Antonio, magari le cose stessero come dici tu! Il teatro in Italia è solo muffa. Il Natale in Casa Cupiello di Latella è un faro nelle tenebre, una stella lucente che insegna, come dovrebbe fare il teatro, nuovi linguaggi e possibilità espressive. Il pubblico italiano è ignorante e arretrato perché ha visto i classici fotocopiati per decenni. Ogni spettacolo ha l’obbligo di sperimentare, altrimenti è cosa morta.

  3. Ma sperimentati a scrivere un testo tuo e potrai farci apprezzare tutte la nuove vie del teatro e comunque
    anche volendo reimpastare gli gnocchi della nonna per sperimentare se non ne esce qualcosa di commestibile almeno allo stesso livello ASTIENITI!!!!!!!