Natale in casa Cupiello / Latella

Natale in casa Cupiello: tiriamo le somme

Lo spettacolo di Antonio Latella ha fatto da detonatore a una bella e fruttuosa discussione su questo sito. Di cui ora Renato Palazzi prova a cogliere alcuni fra gli aspetti più significativi. A partire dal nostro ruolo di spettatori


Vorrei provare a tirare un po’ le somme del dibattito che si è innescato intorno al Natale in casa Cupiello nella messinscena di Antonio Latella. Senza pretendere di arrivare a conclusioni definitive, è tuttavia necessario fare alcune considerazioni su certi aspetti dei vari interventi che mi sono parsi degni di nota.

La prima osservazione riguarda ovviamente l’ampiezza e l’intensità del dibattito stesso che lo spettacolo ha suscitato: raramente, da molti anni a questa parte, mi era capitato di assistere a un evento teatrale che comportasse in sé un tale bisogno, vorrei dire una tale urgenza di discuterne. Al di là del confronto on-line che tutti hanno avuto modo di seguire, in questo periodo ho ricevuto una imprevedibile quantità di messaggi personali che riguardavano tutti questo stesso argomento, sul quale evidentemente sono stato preso come interlocutore.

È il segnale (confortante) di una certa disponibilità da parte del pubblico teatrale a non subire passivamente ciò che gli viene proposto, a reagire, a dividersi, a esprimere pubblicamente le proprie opinioni. È anche il segnale (molto meno scontato) della vivacità di questo sito, del modo in cui tanti lo hanno vissuto come terreno privilegiato di scambio di idee e di impressioni. Ma credo sia soprattutto un risultato connaturato all’insolita potenza dell’approccio del regista, che – piaccia o non piaccia – andava molto al di là della mera interpretazione di un testo, comportava quasi implicitamente questa inedita capacità di scatenare sentimenti, sensazioni, emozioni forti di adesione o di rigetto. O più precisamente – ma l’effetto non cambia – ciò che si è scatenato è dovuto a un combinato in qualche modo irripetibile fra la personalità sovvertitrice di Latella e un autore come Eduardo, che occupa un posto del tutto particolare nella sensibilità collettiva degli spettatori novecenteschi.

In questo senso, credo che lo spettacolo di cui stiamo parlando abbia segnato in ogni caso una sorta di svolta, un passaggio fondamentale e per certi versi irreversibile.

Ma, per tonare alla sostanza del dibattito, due tendenze suggerite dai commenti pervenuti mi hanno soprattutto colpito. Il primo è un’ansia quasi ossessiva di ingabbiare la materia viva di un evento teatrale nelle rigide categorie precostituite di bello o di brutto. Pensavo, francamente, che queste anguste delimitazioni estetiche – in fin dei conti astratte, e del tutto soggettive – fossero da considerare almeno in parte superate in un’epoca in cui il teatro va sempre più massicciamente verso criteri di anti-rappresentazione, di svelamento e messa a nudo della finzione, dell’artificio. Pensavo che un certo tipo di giudizio sommario – bianco o nero, buono o cattivo, senza sfumature – fosse impraticabile in una fase storica in cui lo spettacolo rinuncia all’orpello, alla decorazione, alla sovrastruttura scenografica per diventare una lucida macchina produttrice di significati, che scavalca le suggestioni visive per rivolgersi direttamente all’intelletto o all’inconscio.

Un certo Orlandelli arriva persino ad accusarmi di aver cercato un impossibile equilibrio tra «elogio» e «condanna», il che mi sembra davvero un po’ offensivo. In questi casi, dice, è meglio astenersi. Ma astenersi da cosa? Come si permette, dopo che siamo qui da settimane a sviscerare l’argomento?

Io non credo, e non crederò mai, che Latella volesse fare uno spettacolo bello, nel senso di gradevole, armonioso, in grado di comporre in un disegno unitario ciascuna delle sue singole componenti espressive. Latella, come sempre, ha puntato a urtare, a ferire, a graffiare le coscienze, assumendo un atteggiamento scomodo e talora eccessivo che trascende l’eleganza e la coerenza della forma. Non vedo prese di distanza nel fatto di constatarlo.

Io non credo, e non crederò mai, che la funzione della critica sia di emettere sentenze di elogio o di condanna. Sono convinto che il critico debba fornire, per quanto possibile, strumenti di analisi e chiavi di lettura in modo tale che chi lo segue sia informato e consapevole di ciò che va a vedere, per poi apprezzare o meno una proposta a seconda dei suoi gusti e delle sue aspettative.

Pensavo di essere stato abbastanza chiaro nel precisare che occorre distinguere tra uno spettacolo bello e uno spettacolo importante, e che non sempre le due categorie coincidono pienamente. Devo presumere di non essermi spiegato bene: torno dunque sull’argomento per ribadire che a mio avviso Natale in casa Cupiello è uno degli spettacoli più importanti degli ultimi anni, soprattutto sul piano dell’approccio a Eduardo. E questo è un dato oggettivo, a prescindere dal fatto – assolutamente secondario – che non tutte le invenzioni del regista mi siano parse necessarie.

L’altro aspetto che mi ha colpito è una certa insistenza – anche questa, in realtà, un po’ ossessiva – nel tentare di porre degli invalicabili paletti lungo l’incerto confine tra innovazione e tradizione, tra la presunta fedeltà ai testi del passato e la necessità di individuare altre strade per affrontarli: è un’impresa complicata, in tempi in cui gli stili e i linguaggi si intrecciano strettamente, e l’idea stessa di regia appare esposta a vertiginosi cambiamenti. Latella, ad esempio, appartiene all’area della ricerca, dove tanti lo collocano, o è, come penso, l’ultimo e il più aggiornato esponente di una filiera artistica che da Strehler e Ronconi arriva fino a lui?

C’è chi protesta perché il teatro non si è premurato di avvertire in locandina che il testo rappresentato è da Eduardo, e non di Eduardo. Ma questa, obiettivamente, sarebbe un’indicazione sbagliata, anche dal punto di vista dei diritti. Credo che in questo caso il copione, qualunque sia l’interpretazione che ne dà Latella, venga quasi scrupolosamente rispettato nell’integrità della sua stesura: si potrebbe anzi paradossalmente osservare che, recitando gli attori anche le didascalie e le indicazioni dell’autore, questo spettacolo è in fondo più fedele all’originale di tante messinscene che all’apparenza si guardano bene dal forzarne i toni.

Trovo tutto sommato più consono allo spirito di Eduardo questo Natale in casa Cupiello di Latella che non quello ridotto a monologo – dunque alterato, manipolato nella sua natura – dal pur bravissimo Fausto Russo Alesi, presentato poco dopo sullo stesso palcoscenico.

Qualcuno, addirittura, pretendeva che il teatro avvertisse prima gli spettatori che ciò che andavano a vedere era una libera rilettura, e non un allestimento secondo i canoni classici. Sarebbe stato davvero un curioso avviso! La rilettura più o meno arbitraria di un’opera consacrata rientra infatti da sempre nei compiti del regista. Chi mai dovrebbe stabilire fino a che punto essa sia libera, o mantenuta invece entro i limiti della convenzione? Un apposito comitato, la direzione, la cassiera? Chi dovrebbe esercitare questa sorta di buffa censura preventiva, arrogandosi l’improbabile diritto di scoraggiare o consentire l’accesso allo spettacolo a un pubblico più aperto o più conservatore? E in base a quali parametri?

L’intervento di Latella su Un tram che si chiama desiderio di Tennesse Williams, che ha girato senza scandalo in tutti i teatri italiani, era meno trasgressivo di quello su Eduardo? O forse il problema è solo quello del pranzo natalizio e delle tazzine di caffè?

A molti, mi pare, sembra sfuggire qualcosa che invece dovrebbe essere evidente, e cioè che le nostre preferenze finiscono là dove cominciano quelle degli altri: se c’è chi, a buon diritto, minaccia di non mettere più piede in un teatro che accoglie Latella, c’è anche chi altrettanto legittimamente non vi metterebbe più piede se gli spettacoli di Latella ne venissero esclusi. La verità, come già si è detto, è che una grande istituzione non può permettersi di discriminare né gli spettacoli presentati, né chi va a vederli, o rischia di incorrere in gravi ritardi culturali. Una grande istituzione ha il dovere di tenersi al passo coi tempi, mescolando generi e tendenze, specialmente in un’epoca di radicali mutazioni.

Secondo ogni regola di corretta gestione, il teatro può e deve organizzare incontri, presentazioni, momenti di approfondimento e riflessione, ma le sue responsabilità finiscono lì. Sta poi agli spettatori stessi – in questo aveva perfettamente ragione Anna Bandettini, nell’articolo pubblicato sul suo blog – documentarsi sullo spettacolo e sul regista (Latella d’altronde non è certo uno sconosciuto, è uno dei maggiori talenti europei), consultare i giornali, leggere le recensioni. E sta ovviamente ai recensori avvertire tempestivamente il pubblico di ciò che andrà a vedere.

Può darsi che tutto questo risulti anche prolisso, come sostiene Janina. Ma è meglio ripetersi e dilungarsi che rischiare di non essere compresi.

Renato Palazzi

2 commenti su “Natale in casa Cupiello: tiriamo le somme

  1. Darei, se posso, l’ennesima lettura di questo Natale in casa Cupiello.
    Amo il lavoro di Latella da anni e trovo che in questa operazione ci sia
    qualcosa di forzato all’origine; intuizione questa che ho avuto
    guardando lo spettacolo senza leggere nulla o quasi prima, di
    proposito. Ipotesi,credo, avvalorata da uno stralcio tratto dall’intervista con Linda Dalisi:
    “non è un caso di tradizione, è un caso di eredità. Quando accetti di
    essere orfano hai la capacità di ereditare e di capire cosa stai
    ricevendo, succede quando smetti di parlare di te stesso e parli
    dell’altro, provi a esprimerti attraverso l’altro, attraverso colui
    che ti lascia un’eredità e che può essere un padre come un autore.”
    Mi pare che, alla ricerca di una eredità, proprio nei luoghi non solo fisici
    della tradizione, Latella abbia affettuosamente sentito la necessità
    di cercare una complessità contemporanea che è sua e che nel testo
    manca. C’è forse una profondità, un affondare il dito nella piaga, ma non c’è la tela intricata propria delle sue regie. Andarla a cercare tra le righe, spostando le didascalie nel testo è un metodo interessante, ci leggo un’indagine coraggiosa, un po’ come tradurre musicalmente le indicazioni agogiche di una partitura, mettere in chiaro il sentimento che sta sotto, mescolare gli elementi nell’azione. In questa intenzione credo ci sia della ricerca.
    Nel risultato, tuttavia, vedo la messa in scena incappare in una
    lungaggine innaturale, la bramosia delle parole sopraffare i gesti e
    le azioni, l’assenza di una sintesi che fa apparire un lavoro sudato
    come una costruzione estetica, che si arrampica, un po’ scollata, ai
    topoi che riconosciamo e amiamo nel lavoro di Latella.
    L’eredità può essere un obbligo oltre che un’opportunità.
    Grazie per le riflessioni condivise.

  2. non sono un critico ma un normale abbonato da diversi anni al teatro Argentina.
    Non riesco a capire come la famiglia De filippo abbia potuto concedere il suo permesso a che il sig. Latella usasse il titolo del “Natale a casa Cupiello” per uno spettacolo che ignora completamente lo spirito di EDUARDO.
    Se il sig.Latella avesse usato un altro titolo nessuno avrebbe avuto nulla da ridire se non mi piace o non mi piace.
    Purtroppo il primo pensiero che viene in mente è che il motivo reale sia stato la cassetta.