Il Festival Internazionale di Danza della Biennale di Venezia si trasforma in una rivoluzionaria Terra di Conquista per danzatori, performers, coreografi e spettatori ‘danzanti’ nel nome di una Utopia possibile – Silvia Poletti
Su e giù per le assolate calli, tra campi e palazzi, corderie e arsenali, terrazze mozzafiato e colonnati antichi, Virgilio Sieni traccia percorsi e intarsi di visioni disseminate per Venezia per il Festival Internazionale di Danza della Biennale da lui diretto. Per chi conosce da anni il modus operandi del coreografo e ha partecipato ad altre fascinose peregrinazioni cittadine – magari nell’Oltrarno fiorentino rivisitato dal suo appuntamento annuale intitolato La Democrazia del Corpo – nessuna vera sorpresa. Piuttosto la presa d’atto di una idea coerente e rigorosa di visione artistica e di ‘ideologia’ legata alla politica dell’arte che poco concede allo spettacolo/enterntainment o spettacolo/emozione e punta tutto sull’analisi filosofica del concetto che sta alla base dell’atto creativo. Prendere o lasciare, dunque. Ma se si ‘prende’, allora bisogna farlo in toto, cercando di entrare in sintonia con la filosofia del progetto di Sieni e di farsi contaminare dall’idea di una comunità/umanità che nel gesto, disciplinato, inventato o anche solo replicato, si rivela e comunica l’essenza stessa dell’ essere, qui, ora.
Non a caso Sieni ha indicato come destinatario del Leone d’Oro per la Danza Steve Paxton, per il quale “la danza non è mai stata solo una questione di azioni fisiche, ma piuttosto una complessità di informazioni sociali, fisiche, geometriche, ghiandolari, politiche, intime difficili da restituire” e non di meno da cinquant’anni sperimenta la possibilità del movimento di enucleare tutto ciò.
Né per caso le creazioni speciali, chieste ad alcuni artisti invitati in Laguna (come quelli da me visti, Jerome Bel e Jonathan Burrows con Matteo Fargion, ma in lista ci sono anche Teshigawara, Michele Di Stefano, italico Leone d’Argento per la Danza, e Laurent Chetouane) in omaggio ad altrettanti capolavori artistici della città non sono state visivamente e fisicamente in diretta connessione/raffronto con tali motivi di ispirazione, così che al pubblico è rimasto solo da percepire quello che Mondo Novo di Tiepolo poteva aver suggerito a Bel o La Madonna col Bambino in Gloria di Cherubini Rossi di Bellini a Burrows & Fargion: ispirazioni spesso talmente occulte da non riscontrarle se non vagamente, e con molto sforzo, nelle elucubrazioni ora algide e formaliste per partitura sonora e di sole braccia della coppia ora nella sagace cattiveria con cui Bel si dilunga nell’esposizione di un’umanità teneramente variegata e disperatamente caparbia nel suo sogno.
In questa tessitura solida di rimandi e legami – intellettuali e di solidarietà artistica – Sieni ha dato grande spazio ad autori italiani cui ha affidato progetti, performance, momenti di formazione (con il Biennale College): per qualcuno anche sfide vinte. Sono stati coinvolti infatti tutti i migliori della generazione di mezzo (da Di Stefano, a Simona Bertozzi, dai Kinkaleri a Marina Giovannini a Cristina Rizzo – quest’ultima autrice di una deliziosa coreografia articolata, rigorosa e strutturata sul Boléro di Ravel per ragazzini dai 10 ai 13 anni, in apertura di festival), oltre ad alcuni vecchi compagni di viaggio (la Giordano, Enzo Cosimi sempre fedele a sé stesso e alla crudezza del suo mondo, incarnato dall’impulsività violenta, fisicamente impervia che a tratti rimandava al furore di Jan Fabre, della brava Paola Lattanzi nella prima trancia di Sopra di me il diluvio) e alcuni dell’ultima generazione (Sciarroni, Cerina, Dewey Dell dei fratelli Castellucci), in un patchwork di interventi coreografici dove appare anche un gruppo di autori stranieri – dallo slovacco Anthon Lacky agli israeliani Roy Assaf e Iris Erez al latino David Zambrano.
Come si diceva, comunque, lo spettatore deve ‘abbandonarsi’ alla sfida lanciatagli da questa Comunità che Danza, per comprendere pienamente l’intenzione di Sieni: pochi spettacoli sono infatti canonicamente incasellati negli spazi tradizionali. Lo è Lines, duetto fluttuante e rigoroso in cui Saburo Teshigawara, su brani per violino di Bach, Biber e Bartok, interseca i segmenti guizzanti del suo corpo con le morbide volute di Ryoko Sato; lo è Bound remake di una piéce di Paxton del 1982 appositamente rimontato con il performer Juri Konijar, dal valore squisitamente documentaristico. E altri saranno nei prossimi giorni.
Sarà allora per questo forse che da questa tre giorni veneziana si riemerge con l’impressione di un ribaltamento di fronti, più che di una semplice dialettica tra spettatori e artisti: è come se infatti fosse in atto una rivoluzione pacifica e un Mondo Novo di artisti danzanti stesse invadendo oltre agli spazi, ogni possibile modo di visione e percezione dei non-danzanti e stesse prendendo possesso della realtà attraverso una lenta, ma ostinata sottile forma di contaminazione. Resta da vedere se per una volta, l’utopia riuscirà ad avere la meglio sulla realtà.
9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea Biennale di Venezia
direttore Virgilio Sieni
Venezia 19-29 giugno 2014