La due giorni inaugurale dell’Opera Festival veronese è stata caratterizzata dal pensiero a Franco Zeffirelli, del quale è stata presentata l’ultima Traviata. Oltre alla gloriosa edizione storica di Aida anno 1913.– Davide Annachini
La scomparsa di Franco Zeffirelli ha immediatamente colorato di una nota struggente l’inaugurazione dell’Opera Festival 2019 dell’Arena di Verona, per il fatto di trasformare la nuova produzione di Traviata in una sorta di testamento artistico del grande Maestro fiorentino. L’Arena è probabilmente il teatro che ne vanta la più nutrita collezione di allestimenti e può ritenersi giustamente orgogliosa di essere riuscita a strappare a uno Zeffirelli ormai anziano e malato, ma ancora indomito, l’ultima fatica, soprattutto nel caso di un’opera da lui amatissima e riaffrontata più volte nel corso di tutta la sua lunga carriera. La Traviata ha rappresentato per Zeffirelli un autentico amore, al limite del “tormentone” artistico: dalla prima – forse rimasta insuperata – del 1958, con la Callas a Dallas, a quella scaligera del 1964, con Karajan e una Freni impietosamente beccata dal loggione, da quella cinematografica del 1983 alla sua trasposizione teatrale, sontuosa e spettacolare, dell’anno dopo al Teatro Comunale di Firenze, con Carlos Kleiber e una giovanissima Cecilia Gasdia, che nelle attuali vesti di sovrintendente dell’Arena è stata l’autentica fautrice dell’edizione veronese.
Edizione che, per comprensibili impedimenti del regista, è nata da un progetto di anni fa rimasto irrealizzato e che si rifà in parte alla seconda versione di Traviata allestita da Zeffirelli per il Metropolitan di New York, in cui, dagli abituali cambi di scena a vista su pedane girevoli, la sua tradizionale messinscena era passata a quelli verticali sui due piani sovrapposti della casa di Violetta, visualizzata in sezione. L’idea dello spaccato di un imponente palazzo parigino è tornata quanto mai intonata agli ampi spazi areniani, vuoi per la capacità di rispondere al noto gusto per la grandeur del regista vuoi per la possibilità di offrire livelli diversi di proiezione sonora delle voci, che in questa messinscena hanno trovato una sorta di camera acustica. Se si aggiungono poi la perfezione della ricostruzione storica (che – piaccia o no – aveva in Zeffirelli l’ultimo grande maestro e sostenitore), la ricchezza stilistica dei costumi di un fuoriclasse come Maurizio Millenotti, l’esuberanza delle coreografie di Giuseppe Picone (impegnato insieme a Petra Conti nelle danze a casa di Flora, una sorta di piccola Versailles), l’efficacia delle luci di Paolo Mazzon, questa Traviata si è rivelata un’autentica festa, cui la presenza applauditissima del Presidente Mattarella ha aggiunto per certi versi i connotati dell’evento, cosa che a Zeffirelli sarebbe risultata gradita più di qualsiasi commemorazione.
Sul piano musicale si è trattata di una buona ma forse non memorabile edizione. Daniel Oren ha diretto con quell’ autorità e quel respiro nell’ accompagnare il canto che lo distinguono come uno specialista dell’opera italiana e soprattutto dell’opera in Arena, dove le necessità dettate dall’ acustica e dalla spettacolarità dell’ambiente gli sono ben note. Forse può essersi compiaciuto in qualche dilatazione fin troppo estenuata dei tempi e può essergli mancata qualche prova in più, ma nell’ insieme la sua impronta si è fatta apprezzare. Ugualmente apprezzabile è stata la Violetta di Aleksandra Kurzak e non tanto per la rispondenza vocale – che, seppur evidenziando un assottigliamento di volume sugli acuti, ha svettato senza problemi sino al mi bemolle nel “Sempre libera” e ha onorato tutti i momenti topici della parte – quanto per la capacità di risultare personale come interprete, il che in un’opera come Traviata è qualità quasi prioritaria. La sua padronanza nel gioco delle mezzevoci e dei pianissimi ha servito un personaggio sensibile e lacerato, molto suggestivo nel secondo atto e ancor più nel terzo, tutto condotto con un fil di voce davvero coraggioso da sostenere nella vastità della cavea areniana ma di sicuro effetto espressivo, nel delineare il progressivo spegnersi della protagonista.
Per il resto si possono segnalare la prova sicura e prestante (do acuto compreso), ma ancora da rifinire nei colori e negli accenti, del tenore Pavel Petrov come Germont figlio e quella sempre più senile e affaticata del grande Leo Nucci come Germont padre, insieme alla lunga schiera di interpreti minori, non tutti di primo pelo, tra cui si possono almeno segnalare il nitido Gastone di Carlo Bosi e l’efficace Dottore di Romano Dal Zovo, insieme ad Alessandra Volpe (Flora), Daniela Mazzuccato (Annina), Gianfranco Montresor (Barone Douphol), Daniel Giulianini (Marchese d’Obigny), Max René Cosotti (Giuseppe), Stefano Rinaldi Miliani (Domestico). Buone le prestazioni dell’Orchestra, del Coro e del Ballo areniani e grande successo di pubblico, presente al completo in tutto l’anfiteatro.
Il pienone è stato assicurato anche alla prima di Aida, con conseguente ritardo nell’inizio dello spettacolo per via dei necessari quanto interminabili controlli ai metal detector posti a vari ingressi. Si trattava dell’ormai annuale ripresa dell’allestimento storico della prima Aida areniana del 1913, a firma di Ettore Fagiuoli e con la regia di Gianfranco de Bosio, che, alla settecentesima recita del titolo verdiano a Verona, risulta tuttora lo spettacolo più fortunato di tante edizioni. Questo stupisce se si pensa – a confronto con gli allestimenti kolossal del passato e a confronto anche con la sontuosa Traviata inaugurale – che questa Aida è fatta in definitiva solo di otto colonne egizie, abbinate diversamente da scena a scena, di due obelischi e di qualche statua. Eppure risulta di fascino inossidabile, anche perché nel suo minimalismo questa messinscena ha il merito di trasformare le gradinate areniane in pura scenografia e, grazie alle luci di Paolo Mazzon, in spettacolo di rara suggestione. Una magia legata quindi all’ unicità del luogo e alla sua capacità di “parlare” quando rispettato nella sua bellezza, non inutilmente sovraccaricata da apparati spesso ingombranti o posticci.
Gli aspetti più interessanti di questa ripresa stavano in alcune presenze vocali, soprattutto femminili. In primis l’Aida di Anna Pirozzi, soprano di voce ampia, facile in tutti i registri (in particolare quello acuto), duttile tanto nei fortissimi quanto nei piani. La sua interpretazione drammatica e al tempo stesso intima si è confrontata con quella impetuosa di Violeta Urmana, a suo tempo anche lei Aida e ora Amneris in seguito al ritorno al registro mezzosopranile, che la vede più a suo agio tanto nella pienezza del grave quanto nella sicurezza dell’acuto. Con due primedonne di questo calibro pochi Radames avrebbero avuto molte possibilità per figurare: Murat Karahan ha fatto forza su una vocalità possente di tenore, con sfoggio di acuti a perdifiato e di accenti eroici, ma mostrando un materiale ancora da sgrezzare e un portamento scenico da ingentilire per poter aspirare a un livello artistico apprezzabile. Lo stesso si potrebbe dire per l’Amonasro ruvido di Amartuvshin Enkhbat e per il Ramfis discontinuo di Dmitry Beloseskskiy, voci portate a giocare in Arena più sul volume, mentre complessivamente corretti sono risultati il Re di Romano Dal Zovo, il Messaggero di Carlo Bosi e la Sacerdotessa di Yao Bo Hui, insieme ai solisti delle danze del trionfo (su coreografie di Susanna Egri), Petra Conti, Mick Zeni, Alessandro Macario.
Francesco Ivan Ciampa ha diretto con sicurezza i complessi areniani, anche se certe sfasature tra buca e palcoscenico saranno risolvibili solo con il passare delle recite, insieme a una lettura interpretativa più a fuoco, che, per il fatto dl misurarsi con spazi così aperti e cambi frequenti di cast, resta sempre un obiettivo arduo da raggiungere anche per i più volonterosi. Successo per tutti gli interpreti, compresi gli storici artefici dello spettacolo, De Bosio e la Egri.
Visti all’ Arena di Verona il 21 giugno (Traviata) e 22 giugno (Aida)