Biennale Teatro 2019. Seconda Parte

Termina il nostro resoconto dell’appuntamento lagunare. Fra sorprendenti spettacoli per ragazzi, cristallini talenti visionari, proposte cui gioverebbe qualche “taglio”… e anche qualche delusioneMaria Grazia Gregori


Alla Biennale il teatro ragazzi ha vinto il Leone d’argento. Quello dell’olandese Jetse Batelaan, il vincitore, è un teatro talvolta demenziale (dò a questo termine un valore assai positivo) e per molti aspetti inaspettato. Coinvolge oggetti usati in libertà come fossero della macchine celibi, grandi figure di cartone, uomini in carne ed ossa. Nel primo caso lo spettacolo che si intitola The Story of the Story usa delle enormi sagome in movimento fra le quali è riconoscibile una piramide. Un percorso all’apparenza senza senso (ma ce l’ha) per visualizzare lo scorrere del tempo fino ad arrivare al clou della storia: l’educazione di un ragazzo da parte dei genitori. Tutti e tre a modo loro sono delle icone: il ragazzo che è Ronaldo indossa la maglia della Juventus, suo padre ha le fattezze e l’eloquio spiritato di Donald Trump, sua madre le curve generose di Beyonce. È il nostro ridicolo oggi, che non sa che pesci pigliare. E gira a vuoto su se stesso.
Il secondo spettacolo, The War, ha per protagonisti tre soldati in carne ed ossa che non sanno come gestire la situazione, degli imbranati che ripetono in continuazione ordini senza sapere cosa fare secondo un decalogo militare che gli viene imposto costringendoli a girare a vuoto. E così facendo mostrano la grande, folle stupidità che sta dietro ad ogni guerra, scatenando il gioco e le risposte dei ragazzini in sala.

Alla Biennale Teatro 2019 devo una delusione. Mi ha deluso il nuovo spettacolo di Lucia Calamaro, scrittrice aureolata da molti premi, qui sostenuta da un folto gruppo di estimatori. Il suo precedente spettacolo Si nota all’imbrunire mi aveva colpito e convinto, era profondo, non aveva nulla di “leggero” per forza. Aspettavo con curiosità questo suo nuovo lavoro dal titolo Nostalgia di Dio per il quale ha dichiarato di essersi ispirata a Freud, sostenendo che il bambino non ha ricordi della sua infanzia: questi ricordi al contrario li ritrovano (o li costruiscono) più tardi da adulti. I protagonisti sono una coppia scoppiata, un sacerdote e una donna amica di tutti che desidera con tutte le sue forze avere un figlio. C’è stata una separazione non accettata dall’uomo che ne soffre, mentre la donna sembra perduta nel voler fermare l’attimo: rumori, sciocchezze di tutti i giorni che fanno da colonna sonora della sua sostanzialmente inutile vita. Il sacerdote cerca di rimettere insieme i cocci o almeno di conferire a quella vita un barlume di realtà, anche nell’amica della coppia persa dietro il sogno di un figlio. Per due ore lo spettacolo si snoda fra battutine, qui pro quo mescolati alle domande ben più serie sull’esistenza di Dio che talvolta affiorano in quel parlare così quotidiano che più quotidiano non si può, sul continuare a guardarsi il proprio ombelico senza fare mai un passo avanti. Gente che gira a vuoto fra partite di tennis e i figli, di cui l’uomo favoleggia, che non si vedono mai. Solo all’ultimo capiamo il senso del titolo di questo testo, Nostalgia di Dio appunto, nel racconto di un fatto di cronaca: una madre abbandona il figlio appena nato a testa in già dentro un water e quando questo bimbo viene scoperto ci si rende conto che è rimasto miracolosamente vivo. Come se Dio abbia voluto affermare la propria esistenza con la salvezza di questo bambino. Mi chiedo: forse Dio si identifica nell’innocenza di questo bimbo offeso, rifiutato? L’autrice non dà risposte, si abbandona alle riflessioni dell’uomo della coppia, il più sensibile fra tutti. Chissà, forse è qui che avrebbe dovuto cominciare questo testo dal titolo così impegnativo che si smarrisce fra partite di tennis, registrazioni, pizze da asporto, passeggiate per luoghi sacri romani, recitato “alla quotidiana”, che oggi va molto, ma che è poi un modo per recitare finto. Peccato.

Due spettacoli che distano fra di loro ben sette anni nella vita della belga Miet Warlop, mostrano l’evolversi intelligente e creativo di un vero talento. Il primo, Mystery Magnet, decisamente ispirato all’action painting, si svolge sotto gli occhi di un signore (un guardiano?) dalle misure decisamente fuori squadra che vede mutare sotto i suoi occhi la bianca parete, di fianco alla quale sta seduto, che si riempie di colori, grazie a figure dalle immense capigliature che ne nascondono il volto, pantaloni che vagano qua e là trasformandosi in sederi umani e poi posteriori di cavallo, freccette di tutti i colori che volano nell’aria, impensabili squali di gomma che vorrebbero assalire chicchessia, lasciando comunque un segno di sé sulla bianca parete che poi si apre rivelando un vero e proprio agglomerato di oggetti che si ammucchiano apparentemente senza senso gli uni sugli altri.

La seconda performance è magnifica, assolutamente diversa dalla prima. Ghost Writer will broken hand break, dice il suo titolo. Entriamo al buio, di fronte a noi c’è uno spazio vuoto dove sono disegnati tre cerchi e in mezzo a ciascuno di essi ci sono due uomini e una donna, ognuno con una delle due mani di diverso colore: verde, gialla, rossa. Inizia la musica e tutti e tre cominciano a ruotare senza mai fermarsi. Ognuno ha uno strumento. Da usare. Via via la musica si fa più veloce, inseguita dai tre performer che si scambiano, continuando a ruotare, il cerchio all’interno del quale agiscono, per quarantacinque minuti, posseduti dalla musica, creando situazioni diverse che si trasmettono a tutto il corpo. Sono formidabili fino alla fine.

Saul, testo che ha ricevuto una menzione al college dei registi under 30 dove ha vinto Cirano deve morire di cui si è già scritto è ispirato liberamente all’Antico Testamento e al “Saul” di André Gide, messo in scena da Giovanni Ortoleva che ha sostituito – dice – le rockstar ai re, le suite d’albergo alle regge. Ecco allora in una suite un uomo semisdraiato su di una poltrona. È lui la rockstar, il “re” in crisi, che vuole ritornare a riprendere il suo posto messo in crisi dall’avvento di tale David che può mettere in forse – chissà – il suo posto nella hit parade. Mentre dietro le sue spalle scorrono le immagini di in vecchio film dove si grida in onore di David, lui non vuole rinunciare a stare sulla cima del mondo. C’ è un figlio che tratta con disprezzo anche se se ne serve per agganciare David a cui, dopo averlo incontrato, lo lega una specie di amore. Vorrebbe usare questa complicità, ma il ragazzo sa quello che vuole e per averlo è pronto a tutto. Assistiamo dunque alla presa del potere del giovane: a lui toccherà chiedersi, di fronte a un rosso sipario chiuso, il perché del suo essere lì, il suo disagio destinato a rimanere senza risposta.
C’è un po’ troppo in questo Saul, non privo di un certo interesse, dove il finale destinato al bravo Alessandro Bandini che è David, a mio modo di vedere, dovrebbe essere drasticamente ridotto per essere efficace. Buono l’impegno degli attori da Marco Cacciolla a Federico Gargiulo oltre al già citato Bandini.

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