Biennale Teatro 2019: cosa ci è piaciuto. Prima parte

Il terzo anno di direzione di Antonio Latella ha fissato il focus sulle drammaturgie. Esemplare sotto questo profilo “Mauser” del maestro Heiner Müller, diretto dal croato Oliver Frljić ma anche “Cirano deve morire” di Leonardo Manzan, regista under 30 vincitore della Biennale CollegeMaria Grazia Gregori

Se penso a una definizione possibile per l’intrigante Biennale 2019 diretta da Antonio Latella è quella del dubbio o, se preferite, dell’interrogativo sul mondo e sulle cose, sui linguaggi. Del resto questa manifestazione come le due precedenti dirette dal regista, ha il suo focus nella drammaturgia anzi nelle drammaturgie il che vuol dire non solo come si scrive ma come si recitano, come si rappresentano, direi addirittura, come si vivono sulla scena. Avere pensato come tema a questo nocciolo creativo – che per me è il senso vero del fare teatro oggi – vuol dire soprattutto affermare il senso della sua stessa esistenza. Questo pensiero ci sembra di ritrovarlo in tutti gli spettacoli, sia quelli legati alla parola scritta sia quelli più performativi, spettacoli mai fini a se stessi ma percorsi da una domanda qui ed ora sulla necessità della comunicazione teatrale, dal dubbio estremo di Heiner Müller al dubbio qui e ora dei gruppi che si affacciano al teatro o che nel teatro cercano una conferma.

Nei primi giorni della Biennale Teatro, due sono gli spettacoli che mi hanno particolarmente colpita, due spettacoli agli antipodi. Il primo è Mauser, crudele metafora di Müller sulla rivoluzione. messa in scena dal regista croato Oliver Frljić quasi un dramma didattico che lo stesso autore nella postfazione del testo pensa sia quasi impossibile rappresentare. Il regista, ovviamente, non la pensa come lui, troppo interessato al tema attorno al quale ruota questo testo e spinto, credo, dalla cruda realtà vissuta in patria. Il tema attorno al quale ruota questo testo è quello fondamentale nelle drammaturgia mulleriana: la Rivoluzione (sempre scritto con la maiuscola) che è stato epocale per l’Europa in epoche diverse ma soprattutto per l’autore che ha vissuto in anni in cui l’idea di una rivoluzione possibile e generale naufragava nel disincanto più crudele di un uomo nato nella DDR. La Rivoluzione è come un dio, qualcosa che domina tutto, che cerca e distrugge gli individui, chiede il sacrificio di sé, un’obbedienza cieca che assomiglia a una vocazione al martirio. Porta con sé il sangue, il colore del sangue, il suo odore. Non ci sono angeli, ma gli esecutori. Mauser è uno di questi, uno a cui la rivoluzione ha affidato il compito di uccidere senza pietà i suoi nemici. È un servo della rivoluzione, compie le sue uccisioni di questi esseri nudi, senza difesa senza potersi fermare fino a quando non arriverà il cambiamento. Che poi avvenga o non sia piuttosto una dichiarazione di fallimento c’è da chiederselo. L’ultimo compito di Mauser sarà quello di morire perché ha fallito e non c’è più nessuno da uccidere fuorché lui stesso, la cui mano è diventata tutt’uno con il suo revolver, là nell’atroce città di Witebsk.

Dentro questo testo scarno e impietoso Frljić ha introdotto aggiunte importanti legate alla sua esperienza di croato che sa bene cosa vuol dire avere a che fare con ipotetiche rivoluzioni o pulizie etniche. Racconta di un croato costretto ad andare a vivere in Germania. La famiglia l’ha lasciata al suo paese e da tempo non la vede. Decide di tornare sulla sua macchina tedesca, vestito come un tedesco, ma con i vecchi abiti dentro il baule che prima di rivedere la moglie e i figli indosserà. Li ucciderà tutti come ha imparato e ci appare, pronto a tornare in Germania con una svastica sul braccio, per poi andarsene per sempre.

Mauser nello spettacolo di Frjlić è una sinfonia di corpi nudi, di esseri che non contano più nulla, spogliati di tutto. E c’è Müller, soprattutto, il cui volto fa da sfondo alla scena, enigmatico come sempre, lui considerato da molti il più grande scrittore tedesco dopo Brecht, un idolo da contestare si direbbe, di cui si citano alcuni frammenti di interviste. C’è come – almeno così a me pare – una gran voglia generazionale di fare i conti con i propri maestri. Ecco allora un grande busto dell’autore portato in scena che un’attrice distrugge con uno scalpello al quale si avvicina un attore – l’unico vestito, che rappresenta il regista (credo) vestito di tutto punto per bersi un bel whiskey con il ghiaccio della statua distrutta. Ma, come dice il mio amico Renato Palazzi, mai e poi mai Heiner avrebbe bevuto whiskey con ghiaccio… Spettacolo notevole, regia interessante e attori tutti molto bravi.

La vera sorprese del festival però è stato Cirano deve morire di Leonardo Manzan, regista under 30 vincitore della Biennale College dedicata alla regia dell’anno scorso e qui prodotto dalle Biennale stessa. È un Cirano rap, dal ritmo indiavolato, le parole rotte a metà che spesso costituiscono le battute, le bellissime luci stroboscopiche di Franco Visioli, un accompagnamento musicale perfetto per un ribaltamento che ti lascia senza fiato per tre attori soli, una storia scapestrata dove la vera vittima non sarà Cirano ma la bella Rossana dopo avere scoperto che le belle frasi d’amore non le dice quel bel tipo di Cristiano ma Cirano, uno che è vestito come un piagnone con una mantella che gli copre la testa per nascondere i suo famoso naso. E la bella Rossana con la puzza al naso sarò scaricata da tutti e due. Un continuo andare su e giù dal palco chiamando gli spettatori a testimoni dove ognuno tenta di tirare il pubblico dalla propria parte.

Spettacolo di grande ritmo dove non si spreca neppure una parola (il testo è dello stesso regista che l’ha scritto con Rocco Placidi) e neppure i riconoscibilissimi riferimenti teatrali, che cattura costringendoti a non perdere mai neppure tu, che sei spettatore, il ritmo indiavolato delle accelerazioni verbali, con lunghi intermezzi di parole troncate a metà dette con un ritmo pazzesco sempre sostenuto dal bravissimo polistrumentista Alessandro Levrero con gli attori su e giù del palcoscenico quasi presi da ansia psicomotoria. E se anche Cristiano non sa parlar d’amore chi se ne frega: è troppo quello che vorrebbe da lui Rossana e tutti restano con un pugno di mosche, ma quella che ci perde di più è proprio lei. Ottima la direzione di Manzan degli attori che sono Alessandro Bay Rossi (Cirano), Paola Giannini (Rossana), Giusto Cucchiarini, implacabile Cristiano. Speriamo di vedere questo spettacolo sui nostri palcoscenici. Se lo merita.

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