A Oriente Occidente spicca la lezione artistica di CanDoCo

Nel più vecchio festival di danza contemporanea italiano  le prospettive mutano ma la priorità è sempre la stessa. La danza di qualitàSilvia Poletti

Pioniere nella modalità di programmazione della danza contemporanea d’autore, con un’idea forte che nasceva, all’inizio, dall’intuizione di contrapporre e confrontare due diverse espressioni culturali e geografiche, il festival Oriente/Occidente di Rovereto è diventato negli anni (sono 37 le edizioni messe da ieri in archivio) un punto fermo nella mappa festivaliera nazionale. Magari perdendo un po’ la spinta propulsiva di quei primi anni entusiasmanti – complice anche l’incipiente globalizzazione che di fatto ha reso sempre più labili le distinzioni artistiche e linguistiche tra le diverse latitudini, oltre alla fioritura di altri festival con analoga vocazione, ma pur sempre attestandosi come riferimento, anche perché ricettore sensibile delle tendenze attuali della scena.

Come l’inclusività, che è diventato un topos delle ultime stagioni, nelle quali molti autori hanno volutamente esplorato creativamente il mondo della disabilità seppure con diversi risultati (cito a memoria Emanuel Gat, Alessandro Sciarroni, Rachid Ouramdane, Jerome Bel). Ma per parlarne il festival roveretano ha fatto bene a rivolgersi alla compagnia da cui tutto cominciò: la britannica CanDoCo, fondata nel 1991 con artisti abili e disabili e fino ad oggi diretta da Pedro Machado e Stine Nilsen. Una compagnia immediatamente impostasi non in virtù dell’inevitabile prigione del politicamente corretto o di una malintesa victim art ma proprio per i progetti artistici concepiti e sviluppati sugli artisti del gruppo. Perché proprio qui sta una differenza da non sottovalutare, in questo periglioso frangente.

Qui infatti si tratta di artisti che – nonostante mutilazioni o altri handicap – padroneggiano un linguaggio fisico che è quello del movimento e della danza. Posseggono tecnica. Posseggono afflato musicale. Personalità teatrale. Al punto tale che anche i supporti che servono per sostenere diventano ‘danzanti’, e arrivano a fare pas de bourrée. O l’amputazione di un braccio diventa di fatto invisibile. Tanto sono meravigliosamente danzanti i giovani artisti di CanDoCo.  Giusta dunque l’idea di cimentarsi con alcuni capisaldi della coreografia contemporanea – parzialmente riadattati, ma integri nello spirito – come è successo per il lavoro culto di Trisha Brown Set and Reset/Reset in cui la celebre danza ‘liquida’, sfaldata e morbida di Trisha, gli arti senza peso lasciati ondeggiare per aria (qui può capitare che sia una stampella, perché no?), le file che si compongono e scompongono senza soluzione di continuità, l’entrare e uscire con un saltellare cadenzato ed elastico si riassaporano in una pièce che risulta stilisticamente omogenea anche là dove CanDoCo ha proceduto per improvvisazioni, come da indicazioni della stessa Brown.

Così la valutazione di una nuova commissione, qui in prima assoluta, della israeliana Jasmine Godder, Face In va fatta esclusivamente sull’esito effettivo della sua realizzazione nata da questo incontro artistico. Esito, nonostante la generosità degli interpreti (apparsi per altro un po’ spaesati) per altro deludente. Nella confusa struttura compositiva, nei duetti e trii che – giocando sul tema dell’incontrare e supportarsi gli uni con gli altri – dopo un po’ diventano ripetitivi nello sviluppo e perciò noiosi, nella retorica della voluta apparente casualità, Godder cerca infatti senza convincerci di dare il senso di un’umanità errante e comunque bisognosa degli altri. Tema ampiamente perlustrato e  che comunque avrebbe forse più bisogno di chiarezza di vocabolario e lucidità di drammaturgia per convincere.

Dopo l’acclamata prima roveretana CanDoCo è a TorinoDanza al Carignano il 19 settembre. Mentre domani il festival piemontese apre con Roméo et Juliette con cui si comprese bene che Angelin Préljocaj non era un effimero prodotto della Nouvelle Danse ma un autore con argomenti e mezzi per esprimerli.

Oggi splendido sessantenne, aperto a più esperienze (ultimamente cineasta), Préljocaj ha fatto tappa anche a Rovereto con due eventi. Il primo – anch’esso estremamente praticato in questi anni –  di ‘danza urbana’: il G.U.I.D ( Groupe Urbaine d’Intervention Urbaine) residente nel suo Centro coreografico si esibisce in piazze – qui in quella delle Erbe – e strade in brani vecchi e nuovi dal repertorio del coreografo, con rigore, nettezza, devozione, coinvolgendo il pubblico solo grazie alla bravura e alla logica in crescendo delle pièce proposte.

Il secondo, nel delizioso spazio del Teatro Zandonai, ha riproposto in Italia La Fresque del 2016. Un lavoro che scivola sull’onda di una vicenda tratta da una fiaba cinese: un viandante, sorpreso in una notte di tempesta viene ospitato in un monastero e qui resta talmente incantato dalla fanciulla ritratta in un affresco al punto di credere di poterla possedere: un sogno? La realtà? Chissà. Ma il giorno dopo la fanciulla affrescata non ha più i capelli sciolti, bensì acconciati come usano le spose. Un tema, quello dell’affresco incantato e della perdita del sé nell’illusione caro al balletto (basti pensare a Raymonda e a Le Pavillon d’Armide) ma anche al cinema (La Rosa purpurea del Cairo tra gli altri). Molte quindi le opzioni di taglio narrativo e registico, ma qui Preljocaj sceglie l’asciuttezza quasi astratta avvalorata da misteriosi video che fanno ondeggiare sulle nostre teste vaghe nuvole, fluide chiome azzurrine, astri e luna che poi si trasformano in un bellissimo cielo stellato. Ci si mette anche la musica, elettronica e francamente bruttina, ad amplificare il senso di straniamento quasi algido in cui la vicenda si dipana. Del resto i due innamorati sono più simboli che personaggi (come invece nel suo precedente Blanche Neige) e quindi, nonostante la bellezza poetica di alcuni duetti – soprattutto quello astrale, in cui i due sembrano volteggiare tra le stelle in una coreografia tersa e fisica allo stesso tempo – si sente una certa ‘meccanicità’, nello sviluppo, per quadri, che alterna scene corali con danze di concezione quasi classica (file, cerchi, unisoni, canoni, linee nitidissime) a soli e duetti dove lo slancio atletico si sposa a tocchi più espressivi. Nonostante la bravura dei dieci interpreti alla lunga a La Fresque manca l’aspetto empatico cui Preljocaj sostituisce l’effettismo, con le danze delle lunghe chiome delle ragazze che imprigionano i loro uomini, o il girotondo delle stesse, che fanno roteare in cadenzata misura i lunghi capelli, le gambe veloci, i corpi guizzanti in belle vestine di Azzedine Alaia. Dal teatro si esce insomma ammaliati, ma non emozionati.

In apertura forto di H.Glendinning, Set and Reset/Reset CanDoCo