Com’è sacra la scapricciata confessione del danzatore Dubois

A Contemporanea Festival Olivier Dubois ha presentato il suo spettacolo-confessione in cui il divertimento fa presto posto al rito sacro e misterioso del fare teatro. -Silvia Poletti  

Da vero entertainer Olivier Dubois accoglie il pubblico del suo one man show My Body of coming forth my day con consumata nonchalance. Una coppa di champagne in una mano, una sigaretta nell’altra, in elegante abito nero ( comprato al Cairo ma di fattura turca, spiega), invita a prendere posto in uno spazio spoglio, che si apre come un cabaret e finirà per tramutarsi -alla fine dello spettacolo- in una sorta di altare sacrificale.

Perché è solo apparente la leggerezza di questo spettacolo,  sorta di gioco di società dove Olivier mette a disposizione del pubblico la memoria del suo corpo, che da metà anni 90 ha ‘introiettato’ il sapere e la lingua dei coreografi più disparati ( da Jan Fabre alla Sasha Walz, da Saporta a Preljocaj e-si scopre-addirittura Forsythe e Nureyev) ma che in verità nasconde ben altro. Dalle buste si estrae un titolo, da un altro un brano musicale – e Olivier chiede se vogliamo mantenere la musica originale del lavoro oppure modificarla ( io l’ho costretto a ballare un antico pezzo di Andy Degroat su un brano dei Doors). Il terzo spettatore che volta volta viene chiamato a scegliere cosa deve fare il nostro, è invece invitato a togliergli un capo di abbigliamento: procedimento che va avanti fino a lasciarlo, ovviamente, in mutande -ed è questa  la concessione più retriva all’ apparente atmosfera da villaggio-vacanza che l’artista francese dà alla sua performance/confessione. Del resto il gioco di alto/basso in cui coinvolge il pubblico, lo inserisce nel rituale cadenzato dalle buste e dalle confessioni che è disponibile a fare – un fischietto, passato di bocca in bocca, dà il segnale ogni volta a una domanda irriverente sulla sua vita di persona e di artista – fa pensare appunto ad una situazione pop, con punte trash. Tuttavia a ben guardare pian piano tutto va a confluire in una sorta di liturgia/rito in cui l’artista compie il proprio sacrificio per il pubblico.

Coreografo di poderosa visionarietà e spregiudicata inventiva, legato alla poetica del corpo nella sua possenza espressiva, Dubois è così consapevole del se-performante e così onesto nel darsi da mostrare con naturalezza infantile il fisico ormai pingue e le cangianti emozioni sul suo viso paffuto,non solo rievocando frammenti di coreografie ma anche emozioni da lui vissute in quel fare. In questa casuale collana di estratti cui piega il suo corpo, restituendo dove necessario rigore e pulizia di gesti, o enfasi e violenza viscerale ( passando nel nostro caso da una Saporta barocca alle grida di Jan Fabre) l’artista non mostra così solo i potenziali fisici e espressivi che il suo corpo ha incastonato in venti anni di carriera in una istrionesca e narcisistica esaltata autocelebrazione. Mostra piuttosto la forza assoluta del non detto, l’intensità di gesti che anche nella quotidianità potrebbero rivelarci molto di noi e degli altri: reclama rispetto, e ascolto delle emozioni anche minime, che non cogliamo, le fa riaffiorare dalla memoria – e attraverso di sé ce le fa rivivere:  basti pensare allo struggente lento su ‘Ti amo’ di Umberto Tozzi, ballato con una ragazza del pubblico, erotico, emozionante, avvolgente, sentimentale, intenso come il primo amore. Il tutto descritto dalla forza dell’abbraccio tra i due e dalla tensione dei corpi. E proprio questo ‘darsi totalmente ‘in pasto’ allo spettatore, mettendo a nudo non solo le carni ma soprattutto le pulsioni più intime, che fa trascendere il gioco di Olivier in un rito pagano contemporaneo dai furori dionisiaci, stemperati solo alla fine in un ballo da discoteca, in pellicciona e polvere d’oro, dove però la danza diventa definitivo contatto fisico con gli astanti, offerta della propria carne da percuotere o accarezzare, turbine dove mischiare i liquidi dei corpi come la collettiva vertigine dell’entusiasmo – in una manifestazione teatrale della Divina Follia.

 

Visto a Prato, Sala Campolmi dell’Istituto Culturale Lazzerini per Contemporanea Festival il 27 settembre 2018

foto Ilaria Costanzo