Danzare con il Demone. Vandekeybus a Ferrara

La stagione di danza del Teatro Comunale Claudio Abbado si è inaugurata con una esclusiva nazionale che riallaccia i legami con l’eclettico artista fiammingo, questa volta attratto dal mistero dell’Innocenza ( perduta?). – Silvia Poletti

Il Teatro Comunale Claudio Abbado a Ferrara ha da anni alcuni rapporti privilegiati anche con autori del teatro di danza internazionale. Wim Vandekeybus è uno di questi. Nel corso del tempo ha goduto di una residenza artistica ferrarese e molti dei suoi lavori sono stati presentati qui in prima o in esclusiva nazionale. Per curiosa coincidenza il suo Talk to the demon ha inaugurato la stagione di danza del teatro a pochi giorni dal passaggio emiliano di Alain Platel, offrendo l’opportunità di un confronto ravvicinato tra due personalità culturalmente affini, in qualche modo responsabili della definizione di un nuovo genere di scrittura teatrale polisemantica, in cui confluiscono con assoluta libertà vari vocabolari e tecniche – musica, cinema, teatro, danza- a seconda delle necessità e delle invenzioni dominanti. Un nuovo genere, ormai consolidato da oltre venti anni di creazioni, che ha un padre –Jan Fabrepiuttosto che, come si sente insistentemente ( e a mio parere erroneamente) una madre – Pina Bausch. Quest’ultima infatti aveva fondamentalmente un pensiero danzante che si traduceva in coreografia, alla quale le altre modalità espressive contribuivano confluendo nella struttura drammaturgica; Jan Fabre invece parte da un pensiero filosofico cui dà vita, da artista visivo qual è, di volta in volta plasmando corpi, voci, materiali scenici.

Non a caso sia Fabre, che Platel, che Vandekeybus ( e molti loro performers, a loro volta avviati alla creazione) dichiarano l’approccio ‘tecnico’ alla danza da autodidatti, o al più attraverso training sportivi o corsi amatoriali e se mai il loro interesse nel linguaggio è più filosofico-estetico che, appunto coreografico. Ad accomunarli inoltre è quella concezione del corpo  intrisa di quell’ardore ‘sensuale’ e dell’ accettazione mistica della vita che sono connaturate da sempre nella cultura fiamminga – fin dalla Riforma, del resto, così audace nella innovativa autoaffermazione del valore primario dell’essere umano, ma anche,evidentemente, travagliata sugli esiti morali e spirituali.

Tutto questo per dire che forse il punto di partenza giusto per osservare, appunto,un lavoro di Vandekeybus è proprio quello umanistico piuttosto che quello espressivo formale e quel che conta davvero è vedere se il ‘messaggio’ che si vuole inviare di volta in volta è efficacemente veicolato e evocato dai linguaggi utilizzati.

Talk to the Demon vede in scena sei adulti e due bambini: uno di questi, su alzata di mano del pubblico, sarà di fatto il ‘demiurgo’ che condurrà il gioco scenico, stimolando volta volta reazioni negli adulti, coinvolgendoli, guidandoli, rifuggendoli, imitandoli. Le relazioni sono intrecciate e cadenzate da un dialogo tra piccoli e grandi, che funge anche da ‘colonna sonora’, visto che il lavoro è senza musica: piccole frasi minime che cadenzano le scene, giustapposte senza vera evoluzione drammaturgica, ma al più coese grazie alla presenza dei vari attori e dalla ripresa di certe frasi leit motive ( “Mi vuoi bene?” “Dobbiamo parlare!”, “ Adesso ti do un cioccolatino. Se al mio ritorno non l’avrai ancora mangiato te ne darò un altro. Se no questo lo mangerò io”), che sono tipiche di certe relazioni tra adulti e bambini. Il fatto che qui a pronunciarle siano questi ultimi verso i grandi suggerisce un ribaltamento della prospettiva abituale dal sapore simbolico, grazie all’innocenza naif dei piccoli interpreti che guidano , letteralmente, il gioco teatrale ( culminante nella esplicita scena della cavalcata da cow boy che il bambino fa sulle spalle di un attore, mentre gli altri fingono di essere delle vacche) e in un certo senso determinano azioni e reazioni dei grandi ( una enorme chiazza rossa applicata sull’abito bianco di una ragazza la trasforma in un essere ferito e agonizzante, vagante senza requie per la scena; il suono di una macchina celibe provocato dalle piccole mani del bambino fa balzare e muovere gli adulti disorientati nello spazio scenico, mandandoli a sbattere contro la parete di lamiera) . Gli adulti blaterano ( come lo strepitoso attore Jerry Killick che ci rivela la sua antipatia per il piccolo protagonista) e si sbattono qua e là – frementi, violenti, incarogniti al punto di infliggere violenze insopportabili agli altri – appendendo uno a testa in giù, schiacciando un altro. Il bambino li osserva, spesso immobile, appartato, lontano. E se fosse una sorta di divinità innocente e inconsapevole, un daimon, appunto, di quelli che osservano il destino degli umani e il loro riottoso affaticarsi e ogni tanto ne agevolano lo svolgimento? O se invece il demone fosse proprio il mondo adulto, capace di diventare una bestia feroce, o un lascivo e accidioso provocatore?

L’arcano non si svela, volontariamente: l’apparizione finale di clown tristi ci rimanda se mai alla epigrafe shakespeariana ‘All the world is a stage’ e sembra chiosare che in fondo, siamo tutti dei poveri pagliacci sulla faccia della terra. I cento minuti ( troppi) del lavoro di Vandekeybus lasciano volutamente aperti gli interrogativi ( ce lo spiega lui stesso, nella conversazione con Marinella Guatterini e Gisberto Morselli dopo spettacolo, che è esattamente quello che si propone nel suo modo di fare teatro). Resta però l’impressione che a parte una padronanza di certi meccanismi scenici e teatrali pour epater le bourgeois ( che infatti, anche se in piccola parte, lascia la sala), nell’elaborarne l’impianto Vandekeybus manchi di una vera  partecipazione emotiva e piuttosto regoli la scrittura scenica con studiata maestria scientifica, che alla fin fine tende a indugiare troppo nel virtuosismo creativo  facendo perdere alla pièce la forza di una vera necessità poetica.

Visto al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara

Talk to the Demon
direzione coreografia scene Wim Vandebeybus
compagnia Ultima Vez
prima italiana 15 ottobre 2014

la foto in apertura è di Marco Caselli Nirmal, grazie a Teatro Comunale Ferrara