Sergei Polunin è tornato in Italia. E ha mobilitato le schiere di fans che ormai ha numerosissimi anche da noi. In concomitanza con l’ufficiale presentazione del documentario sulla sua vita, “Dancer” presentato a Milano e finalmente diffuso nei cinema italiani (dopo l’anteprima al Festival dei Popoli a Firenze nel novembre scorso) per due date si è esibito nel suo “Satori” – serata ideata con la Fondazione che ha il suo nome – Silvia Poletti
Nell’Olimpo dei fuoriclasse dell’arte questo giovane ucraino dal talento struggente merita davvero un posto di spicco. Ha una qualità di danza magnifica: non tanto per la tecnica che padroneggia nelle sfumature, prima guizzante e nervosa, e poi calda e avvolgente – con quelle braccia che saettano e diventano piume, i salti felini morbidissimi che si fermano in aria come un sospiro. Ma per quello che questa danza può rifrangere di un’interiorità frastagliata e complessa.
Polunin ha infatti l’aura delle ‘stelle‘: chi l’ha visto in ruoli del repertorio sa cosa si intende. Magnetico e vibratile, umanizza i suoi gesti e li rende eloquenti. Soprattutto quelli meno esplosivi. Il tocco di una mano, lo sguardo, la delicatezza di un abbraccio. Nel bel documentario di Steven Cantor che consiglio, sono proprio questi dettagli che forse rivelano di Polunin molto più di quanto le cronache e le sue irruenze di un tempo raccontano. La miseria assoluta in cui è nato, nella campagna ucraina, si dissolve nel sorriso grande e innocente di un bimbo che nella danza – che adora – trova il suo rifugio e la sua via di fuga; le angosce e i fantasmi svaniscono nel ritrovare e abbracciare teneramente la maestra che ne aveva scoperto il talento assoluto.
Qualcosa insomma vibra e si riflette nella personalità di questo giovane uomo che ha mostrato nel suo corpo tatuato e nello sguardo febbrile e fuggente le grandi crisi personali e che finalmente riappacificatosi con la sua arte continua però a cercare anche in altro – cinema, fashion photos – forme di espressione e di realizzazione. E qui ora sta il punto della questione. Il confine tra il diventare un mito dell’arte e una icona pop è labilissimo e Sergei cammina, a nostro parere, sul limitare tra i due. Cadere nell’inganno della seconda, disperdendo i doni che ha e può donare, è deleterio e, attenzione, dal destino irreversibile. E ora, più che mai, dunque ha bisogno di valutare bene ogni scelta.
Satori dimostra pienamente questo stato delle cose. È una serata che nasce dal Project Polunin, ovvero dallo stesso Sergei che insieme a un gruppo di mecenati (tra cui David LaChapelle, il cui video di Take me to Church ha superato i 30 milioni di visualizzazioni) ha ideato una serata di danza composita di coreografie vecchie e nuove in cui Sergei danza insieme a un gruppo di ballerini di scuola russa e offre spazio a un piccolo talento che – come già avvenne nel suo caso grazie alla Fondazione Nureyev – ha deciso di aiutare con la sua Fondazione.
Il titolo allude ad un concetto Zen che parla di illuminazione e presa di coscienza di una nuova verità mai immaginata prima. Evidentemente rimanda all’attuale stato di Polunin e anche solo per questo vale di per sé. Ma come dicevamo il limite è friabile e il rischio grande. Quindi conviene che questo meraviglioso talento non sia lasciato troppo solo nelle scelte artistiche e si affidi ad un mentore – o più di uno – che ne guidi i passi, sia nella scelta di nuove coreografie, sia nella confezione degli spettacoli.
Sorvolando sul fatto che alla seconda e ultima performance italiana, al Teatro Comunale di Modena, l’altra superstar Natalia Osipova non ci fosse perché ufficialmente infortunata (ma internet è subdolo e baro: e si legge altrove che aveva previsto solo un passaggio italiano, alla prima di Parma. E allora come la mettiamo?) e che quindi nel lungo Scriabriniana, collana di brevi coreografie neoclassiche sovietiche dello sfortunato Goleizovsky (prelibatezza antiquaria per capire da dove arrivano certe cose di Grigorovich, ma anche Balanchine e Cranko) abbiamo fatto a meno di Polunin, salvo per un vorticoso assolo infuocato dai salti eroici alla Spartacus, il resto del programma solleva perplessità.
L’assolo di Andrey Kaydanovskiy è un appetizer darkeggiante, tra fumi e luci a taglio, in cui il ballerino dispiega tutte le sue mercanzie stilistiche e tecniche giocando sul doppio registro tra inquietudine e esaltazione: scarmigliato, busto nudo, gira, salta, si annoda, e poi si distende in magnifiche arabesques.
Nel lungo brano omonimo che chiude la serata e che vede il suo debutto da coreografo, il troppo – un apparato scenografico importante, un albero sullo sfondo, videoproiezioni di immagini, veli e luci curate (supervisione LaChapelle) – soverchia il nostro Sergei che ci parla della sua vita. La famiglia felice del piccolino baciato dalla danza, i demoni che irrompono e rovinano, la luce pacificatrice che lo restituisce più consapevole e forte alla sua esistenza. Al di là della ridondanza scenografica, purtroppo è proprio la coreografia a non rendere merito all’interprete e ai suoi compagni (nella serata, privata di Osipova, magnifici Igor Tsvirko e Nina Kaptsova del Bolshoi), tanto è ingenua nella retorica e antica nel dispiegamento di tutti i clichés neoclassici possibili. Il pubblico comunque acclama e trattiene per lungo tempo sul palcoscenico questo artista grande e fragile, abbracciato e amato con trasporto. Noi invece ci rimettiamo in strada auspicando che ben presto un coreografo di levatura e capacità introspettiva vera accorra a veicolare e a trasformare le inquietudini del giovane Polunin in una danza di bellezza ed emozioni profonde, che sappia palpitare ben oltre il fremito di un tour en l’air.
Visto al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena, il 6 febbraio 2018
La foto di apertura è tratta da Dancer
La recensione è molto sommaria. Speriamo che Polunin non dia ascolto ai mille “mentori” improvvisati che si offrono a indicargli una via. Se lo avesse fatto ad oggi non avrebbe raggiunto i successi Che lo rendono una superstar. L’assenza di Osipova ha forse dato maggior slancio alla sua danza. Magari scegliesse una partner diversa.
Apprezzabile invece di questa recensione ( ahimè fotocopia) l’afflato etico che invita a guardare al talento come un bene prezioso per tutti non solo per il possessore.
“Oltre i tattoo la sua arte merita di più”? Seriamente? Beh sicuramente merita più di un titolo come questo! Io dico, l’Italia si sta trasformando giorno dopo giorno in un deserto culturale, i nostri corpi di ballo chiudono uno dopo l’altro, i nostri artisti fuggono all’estero disperati, le proposte del balletto sono entusiasmanti e innovative come un antipasto mari e monti nella trattoria sotto casa, poi per grazia divina ci arriva uno degli artisti più entusiasmanti dell’intero orbe terracqueo, giovane e brillante, appassionato e noi gli andiamo ad augurare di lasciar perdere la creazione artistica e di affidarsi a qualcuno di più esperto e maturo. Certo, e magari di cancellarsi i tatuaggi, cotonarsi i capelli, e tornare a ballare lo Schiaccianoci al Royal Ballet. Ma anche no, grazie, come se avesse accettato, ma…no?
Concordo con la tua analisi. Davvero l’arte, quella vera, meriterebbe recensioni adeguate!
Ho molto riflettuto se pubblicare o meno questi commenti di spettatrici dello spettacolo da me recensito. Poi ho valutato che fosse giusto. Che fosse utile che i lettori affezionati di delteatro.it o chi si imbatte casualmente o meno nelle recensioni di questo sito, e nelle mie in particolare, riuscisse a comprendere e fare distinguo. Che sono necessari, sempre. E così riuscisse anche a capire quanto è complessa la professione del ‘critico/spettatore di professione’. Che come si desume bene dai commenti qui pubblicati deve obbligatoriamente distaccarsi ‘criticamente’ da ciò e chi vede, cercando di contestualizzare e valutare, anche in prospettiva, potenziali e talenti. Non è questo il compito dei fans, che fanno appunto i fans, anche al limite dell’insolenza. Ma è la dura legge di internet, e dei social a cui ohime la professione giornalistica oggi deve piegarsi. C’è spazio per tutti, insomma. Ma con una regola che non va mai dimenticata, da entrambe le parti: reciproco RISPETTO. sp