Lo spettacolo scelto da Bruni e De Capitani per inaugurare la stagione dell’Elfo Puccini è un testo di Alan Bennett, caustico e ironico autore britannico di cui la coppia aveva già portato al successo “THe History Boys”. Il risultato? Da vedere – Maria Grazia Gregori
Con quel particolare “fiuto” che lo distingue nelle scelte drammaturgiche rivolte a temi legati al nostro oggi, il Teatro dell’Elfo apre la sua stagione con un lavoro del drammaturgo inglese Alan Bennett del quale qualche anno fa ha messo in scena con straordinario successo The History Boys, dove si metteva a fuoco il mondo della scuola con un’analisi cruda del rapporto non solo fra vecchi e giovani ma anche fra chi ha il potere e chi non ce l’ha: un ironico ritratto della english way of life tutta centrata sulla competizione. Ora in scena all’Elfo Puccini c’è Il vizio dell’arte, testo scritto da Bennett nel 2009 e andato in scena nello stesso anno al National Theatre dove, del resto, la pièce è ambientata. Questa volta i protagonisti non sono dei ragazzi qualunque di diversa estrazione sociale in lotta con il mondo degli insegnanti ma due mostri sacri della cultura inglese come il poeta W.H.Auden e il compositore Benjamin Britten: il primo conosciuto ai più per via del suo Funeral blues recitato durante le esequie di un protagonista nel film Quattro matrimoni e un funerale; il secondo compositore di punta della musica contemporanea che musicò fra l’altro Morte a Venezia. Due geni borbottoni, gelosi, pieni di acredine ma anche di humour che hanno fatto insieme un pezzo di strada e che poi si sono persi di vista.
Ma il bellissimo testo di Bennett, costruito compulsando le celebri biografie dei due artisti di Humphrey Carpenter, si salva dalle secche banali di un teatro documento per la scelta che fa del luogo in cui questi personaggi si ritrovano, si confrontano,si raccontano. Il luogo di questo incontro del tutto immaginario, è il teatro, che è poi il vero protagonista della vicenda. Il teatro dunque dove si sta provando Il giorno di Calibano con gli attori che poi si trasformeranno in personaggi, con l’aiuto di una regista donna, frustrata nel suo desiderio di essere attrice, con un autore che si sente sui carboni ardenti e che non vorrebbe fare nessun taglio al suo testo e le idiosincrasie, i colpi bassi fra gli attori e dei tecnici nei confronti degli attori. Teatro nel teatro dunque, dove Bennett ci restituisce in modo straordinario il vissuto dei due amici entrambi omosessuali, emblematici pur nella loro diversità caratteriale ma comunque uniti da quel “vizio” o modo di essere artisti con tutta l’ambiguità che questo comporta.
Auden, per esempio, con l’alibi della poesia ha un comportamento border line: fa pipì nel lavandino di cucina, scambia un giovane che viene a incontrarlo perché vuole scrivere la sua biografia per un marchettaro che ha richiesto per fare un pompino a domicilio a pagamento e in più mostra di avere perduto un po’ la memoria, visto che continua a citare ossessivamente il matrimonio con Erika Mann figlia del grande Thomas. Britten, all’apparenza più tranquillo, è lì per chiedergli un consiglio: se continuare o no il lavoro su Morte a Venezia perché teme che possa risultare un lavoro per pedofili. A sostenere questo gioco a due e per evitarsi il fastidio di dover spiegare troppe cose, Bennett mette accanto ai personaggi un loro alter ego, un giovane che diventerà biografo di entrambi.
La regia di Ferdinando Bruni e di Francesco Frongia ha un ritmo veloce e incisivo che trasforma lo spettacolo in una specie di Hellzapoppin’ teatrale dall’humour irresistibile, dove si mostra il fare teatro dentro e fuori. Già quando entriamo nella Sala Shakespeare ecco due lunghi tavoli di fronte al palcoscenico dove sono sparsi libri e gessetti colorati e dove stanno seduti dando le spalle agli spettatori non solo i tecnici veri ma anche gli attori che “faranno” i tecnici. Un altro tavolo per l’aiuto regista e i suoi collaboratori è in palcoscenico, mentre al centro della scena ci sono divani e poltrone, un abbozzo di cucina, e sul fondo si apre la grande porta da cui si entra o da cui vengono portate le scene, si accendono le luci di sicurezza: è la macchina del teatro che rivela il gioco del teatro.
Un discorso a parte lo meritano gli attori, impeccabili, dall’aiuto regista di Ida Marinelli come sempre perfetta che rivela in una scena madre di essere un’attrice fallita, al sanguigno marchettaro di Alessandro Bruni Ocaña, allo schizzato attrezzista di Vincenzo Zampa, all’autore che s’impunta su tutto di Michele Radice, al pianista (Matteo de Mojana). Umberto Petranca come futuro biografo è un deus ex machina ironico e determinato e non si lascia sfuggire la scena esilarante in cui, travestito da donna, canta Naughty victorian Lady. E poi, last but not least, ci sono Fitz e Henry rispettivamente Auden e Britten, al secolo Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Due interpretazioni di fortissimo rilievo: spavaldo, provocatorio, senza vergogna l’Auden di Ferdinando Bruni non vuole essere ingabbiato nella contrapposizione fra libertà del desiderio e invecchiamento e gioca sui toni tesi il suo personaggio di cui di tanto in tanto indossa, come in un macabro show, una grossa testa-maschera che lo riproduce e lo trasforma in un fantoccio rugoso. A lui risponde non solo idealmente il Britten esemplare di Elio De Capitani che come attore arriva alle prove con un cappelluccio da Qualcuno volò sul nido del cuculo ma pronto a trasformarsi, grazie a trucco e parrucca, in un Britten molto interiorizzato ormai stanco, ma non rinunciatario perché – si sa – il vizio dell’arte appartiene a tutti e due .Da vedere.
Al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 16 novembre 2014
Il vizio dell’arte
di Alan Bennett
traduzione di Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
costumi di Saverio Assumma
musiche dal vivo Matteo de Mojana
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Vincenzo Zampa, Matteo de Mojana
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
voce registrata di Giorgio Gaddi
sassofono di Luigi Napolitano
produzione Teatro dell’Elfo