Non è tonitruante o nerissimo come in altre celebri edizioni il Moro di Elio De Capitani per il Teatro dell’Elfo. La traduzione di Ferdinando Bruni mescola il colto al basso, la poesia alla prosa, anche quotidiana, componendo come una sonata di fantasmi, scandita dal suono lamentoso di una ghironda – Maria Grazia Gregori
Non è un Otello tonitruante quello in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano. Anzi il personaggio del Moro, il generale vittorioso baciato dalla gloria che – lo si comprenderà dopo –, ha ormai capito che impossibile è diventato l’eroismo, è un Otello che soffre di un profondo senso di impotenza se non di inadeguatezza, di una malinconia alla quale non sa dare un nome. L’ambiente che lo circonda gli è ostile ma i nobili veneziani che hanno bisogno di lui, lo blandiscono, lo corteggiano: lo fa, con malcelato disprezzo, anche il padre di Desdemona che lo ama e che è pronta a seguirlo, che deve chinare la testa perché il suo valore serve alla Serenissima. È un disprezzo sotterraneo non privo di razzismo del quale, del resto, non sono immuni certi testi di Shakespeare a cominciare dal Mercante di Venezia.
L’Otello di Elio De Capitani che, a quanto mi risulta, è la prima volta che affronta una vera e propria tragedia, sfugge all’immagine che noi abbiamo di questo personaggio. Innanzi tutto, per esempio, non è nero né ondeggia sui fianchi e non ha la bocca resa tumida dal trucco come quello di Laurence Olivier e non è neppure nero come l’inquietante Otello di Orson Welles in un film andato famoso, oppure come quello di Vittorio Gassman, che a giorni alterni si scambiava le parti con Salvo Randone, o quello protervo di Carmelo Bene. La sua “negritudine” è solo una leggera accentuazione bruna del colore della pelle e dunque non è esterna ma interiore: uno scompenso, un’estraneità diffusa. Tanto che il suo personaggio si muove talvolta come se fosse chiuso in un suo mondo impenetrabile nel quale ci è quasi proibito entrare, ma che, comunque, è sempre un mondo di teatro. La luce della lampada che illumina talvolta i suoi incontri con l’adorata Desdemona (Camilla Semino Favro) lo rischiarano solo parzialmente: la sua, infatti, è una solitudine totalizzante alla quale ha cercato, invano, di opporre un amore altrettanto assoluto. Una precisa scelta di campo che è poi il cuore, per me, attorno al quale ruota lo spettacolo.
Il suo contraltare, il suo nemico dichiarato Iago, invece, ha i piedi ben piantati per terra. Apparentemente pacioso (l’interpretazione e la corporeità di Federico Vanni corroborano questa intuizione), l’alfiere del Moro, che non gli perdona di avergli preferito come luogotenente a Cipro Cassio, è la rappresentazione della banalità del male, tanto che, fingendo una amicizia che non sente, concretamente costruisce il piano che gli permetterà di incanalare l’odio che sente verso Otello tessendogli attorno una ragnatela di menzogne sul presunto tradimento della moglie, inventandosi un amorazzo di lei con quello sciupafemmine di Cassio (Angelo Di Genio). Da secoli ci si arrovella sul fatto che un uomo scafato come sembrerebbe Otello possa crederci, non abbia cioè la lucidità di vedere l’inganno: evidentemente, per Shakespeare, la gelosia e l’amore rispondono a degli input che la ragione non ha. Così lì, nella solitudine di Cipro, non comprende gli avvertimenti della fedele Emilia (Cristina Crippa), moglie di Iago, prima inconsapevole e poi consapevole degli inganni del marito.
In questo spettacolo firmato a quattro mani da Elio De Capitani e da Lisa Ferlazzo Natoli si respira un’aria da racconto a più piani, accentuato dal movimento dei diversi sipari inventati da Carlo Sala in materiale trasparente che sembrano dividere i momenti più realistici da quelli più decisamente onirici nati dalla fantasia malata di Otello che da concreto uomo d’armi si trasforma via via nel fantasma di se stesso. Costruito sulla traduzione di Ferdinando Bruni che mescola il colto al basso, la poesia alla prosa, anche quotidiana, percorso da impensabili modernità (l’uso del telegrafo, per esempio), l’Otello dell’Elfo ci appare come una sonata di fantasmi, scandita dal suono lamentoso di una ghironda, suonata da una specie di clown (Alessandro Averone) – commentatore muto dei momenti culminanti della pièce che ci condurranno allo strangolamento di Desdemona, alle rivelazioni e alla morte di Emilia, al suicidio di Otello. Amleticamente, ancora una volta, il resto – lo sottolinea Iago, una volta scoperto, dichiarando di non volere più parlare – è silenzio.
Visto all’Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 13 novembre 2016. Foto di Luca Del Pia
Otello
di William Shakespeare
traduzione di Ferdinando Bruni
regia di Elio De Capitani e Lisa Ferlazzo Natoli
scene e costumi Carlo Sala
musiche originali di Silvia Colasanti
con Elio De Capitani (Otello), Federico Vanni (Iago), Camilla Semino Favro (Desdemona), Cristina Crippa (Emilia), Angelo Di Genio (Cassio), Alessandro Averone (Roderigo/Buffone), Carolina Cametti (Bianca), Gabriele Calindri (Brabanzio/Graziano), Massimo Somaglino (Doge/Montano), Michele Costabile (Ufficiale/Lodovico)
luci di Michele Ceglia
suono di Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell’Elfo con il sostegno di Fondazione Cariplo