Enduring freedom

Si intitola come la (fallimentare negli esiti politici e sociali) operazione lanciata da Bush figlio in Afghanistan la seconda parte dello spettacolo-kolossal allestito dal Teatro dell’Elfo, che ripercorre, in questo caso con maggiore attenzione alle vicende umane, la travagliata storia del Paese asiatico così lontano eppur così vicino a noiMaria Grazia Gregori


Con Enduring Freedom – nome dato da George W. Bush alla spedizione americana contro l’Afghanistan e titolo della seconda parte della maratona, scritta a più mani, andata in scena al Teatro dell’Elfo di Milano, dedicata alla storia, alle vicissitudini di quel Paese, vera cartina di tornasole, racconto inquietante di tutte le rovine del mondo non solo occidentale – è giusto, credo, dire che, dopo i lunghi anni del conflitto afghano, oggi niente è ancora finito e che la storia del mondo o perlomeno quella di una sua gran parte, non è stata più quella della pace. Ecco dunque l’Elfo, coraggiosamente, chiudere il suo periplo dentro le vicende drammatiche di quel Paese che dal 1842 al 2010 hanno toccato tutti, chi più chi meno, da vicino. E il successo ottenuto dallo spettacolo (sarà possibile vedere le due parti insieme in una sola giornata) sta una volta di più a sottolineare come ci sia bisogno, anche attraverso il teatro, di dare un confine agli eventi, cercare una spiegazione possibile a tanto disastro.

Se nella prima parte – Il grande gioco – è stata la vicenda politica a fare la parte del leone, nella seconda, pur mantenendo la necessità del racconto storico, sono i personaggi, le vicende umane, il sogno di una vita futura a prendere il sopravvento. E insieme a questi sogni, anche la lucidità, l’esigenza di un vivere diverso per quel Paese martoriato. Dentro questa visione, più intima, spesso corale perché anche in questo caso i drammaturghi sono diversi, assumono un risalto molto forte certi ritratti di personaggi: dal mitico comandante Massud fatto saltare in aria dai talebani nel corso di una finta intervista proprio in concomitanza con l’assalto alle Torri gemelle, che sogna un Afghanistan libero dal tallone dei talebani, dalla loro retriva visione del mondo, personaggio puro ma non ingenuo, alla direttrice di un’agenzia Onu costretta a capire che il mondo dei talebani disprezza profondamente la donna che gestisce un potere.

Perché per chi sgarra c’è la fossa dei leoni, e soprattutto la violenza diffusa verso chi – come la donna – non accetta di non avere voce né dignità. E insieme sogna di poter studiare, imparare, aprirsi al mondo attraverso la conoscenza , non avere paura di essere se stessa, ricordare a memoria le poesie, palpitare per il futuro: sogni femminili stroncati dal rigido isolamento di una visione della vita per cui la donna è meno di niente. Il testo più volte si sofferma a suggerire, intravvedere una specie di possibile comprensione fra gli invasori e gli afghani (ma non i talebani), fra donne e uomini. Peccato che sia solo un sogno, sognato prima di una morte orribile: quella del soldato americano che sogna il ritorno a casa nel calore del suo letto e quello delle due sorelle con un sogno che è un delirio sul limitare della vita: la prima, andata all’estero con il padre dove ha conosciuto il mondo, che torna a prendersi la sorella; l’altra che sogna di volare via, pur rinchiusa nei suoi abiti punitivi, verso la libertà. E tocca a questi sogni, sul sottile confine che limita la vita e la morte, a ricordarci una vita possibile. Un sogno di libertà destinato a essere sconfitto da chi ha il potere delle armi e della guerra, ma così infinitamente e disperatamente umano.

Con un materiale così incandescente, nella bella traduzione di Lucio De Capitani, in un’atmosfera senza illusioni, Elio De Capitani e Ferdinando Bruni hanno puntato moltissimo nella loro regia sulle atmosfere, su luci non esornative ma cariche di senso e sulla recitazione degli attori. Bastano, brechtianamente, semplici aperture di teli/sipari a darci il luogo e il tempo dell’azione, un po’ di sabbia quando occorre, letto di morte di un soldato americano, un semplice muro per il rifugio di un leone accecato, una branda sconnessa, la semplice tenda di Massud, il colloquio fra due militari americani – un sergente e un soldato –, a darci il polso di una situazione, a mostrarci come la guerra possa ridurre le persone alle quali, in fin dei conti, è abbastanza poco chiaro del perché siano lì davvero. Molto bene amalgamati gli attori, a cui è ben chiaro, al contrario dei loro personaggi, il perché del loro esserci, per raccontarci una storia di potere e sottomissione, dominio e violenza, impossibilità di un sogno fosse pur quello più importante di tutti, la libertà.

Visto al Teatro Elfo Puccini. Repliche fino al 25 novembre 2018. Foto Laila Pozzo

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AFGHANISTAN: ENDURING FREEDOM
di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace
traduzione Lucio De Capitani
regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
video Francesco Frongia
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana
assistente alla regia Giovanna Guida
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
produzione Teatro dell’Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Napoli Teatro Festival con il sostegno di Fondazione Cariplo