Teatri Uniti ricordano Pier Paolo Pasolini riallestendo il suo Caldéron, disincantata constatazione del fallimento dell’utopia rivoluzionaria, vista attraverso i sogni di una donna – Maria Grazia Gregori
È di scena Calderón, un altro Pasolini in questa stagione in cui cade il quarantennale del suo atroce assassinio che si segnala con la riproposizione di alcuni suoi testi, ma anche con reading dei suoi romanzi. Scritto nel 1973 Calderón è forse fra le sue opere la più difficile da realizzare non tanto per il linguaggio né per le implicazioni politiche che contiene quanto perché è andata smarrita non la storia, ma la vicinanza ai fatti che qui si raccontano. Ispirato a La vita è sogno capolavoro seicentesco di Calderón de la Barca (prediletto da Luca Ronconi che ne diede un’interpretazione memorabile nel corso del Laboratorio di Prato nel 1978), al tema dello smarrimento della propria identità, della propria storia individuale che ne è il fulcro, il testo di Pasolini è situato nel 1967 a Madrid, nella Spagna franchista e contiene tutto il disincanto, l’angoscia, di una rivoluzione fallita, di una storia destinata circolarmente a ripetersi senza soluzione di continuità nell’eterno, dannato contrasto fra persona e potere, fra libertà e costrizione.
Del testo classico Pasolini conserva anche i nomi dei personaggi, il loro vivere tra sogno e realtà ma questa volta la protagonista dei sogni è una donna, Rosaura, che nel suo letto, assumendo tre identità diverse, sogna di liberarsi di una vita che la disgusta spingendola nel gorgo della malattia. Rosaura è un personaggio dai tre volti che appartiene a tre classi diverse: aristocratica, proletaria, medioborghese, sentendosi estranea a tutte e tre. Per questo, nel corso di ogni sogno fatto nel suo letto, tenta di sottrarsi al clima soffocante che la tiene incatenata a un presente che non vuole accettare ma da cui le è difficile, anzi impossibile, liberarsi perché il suo essere figlia, madre, moglie non l’aiuterà, come non l’aiuterà l’evasione nel sogno perché sarà sempre il potere a vincere spingendola – ci dice Pasolini – ad “obbedire senza essere obbediente”.
Nel primo sogno Rosaura si innamora di Sigismondo, ex amante della madre che scopre essere suo padre; nel secondo è una prostituta presa da passione per un giovanissimo ragazzo, Pablito, che le viene rivelato essere suo figlio, senza per questo rinunciare – almeno con il pensiero – ad amarlo comunque; nel terzo è una moglie catatonica in preda ai deliri fino a quando non si innamora di Enrique, uno studente rivoluzionario di diciannove anni.
A mettere in scena questo testo emblematico così colmo di passione civile, di indignata impotenza dove c’è già tutto il Pasolini, scomoda coscienza critica di una società che gli era difficile riconoscere come sua, con un linguaggio non facile che ci spinge talvolta a chiederci se il suo sia davvero teatro (si lo è: folgorante e quasi sacrale, provocatorio e impotente) è, per Teatri Uniti, Francesco Saponaro che ne firma una regia senza voli pindarici ma solidamente “di servizio” ( in questo caso è una virtù) situando lo spettacolo nella scenografia tripartita di Lino Fiorito: un trittico mobile dove elabora graficamente l’immagine del celebre quadro di Velazquez Las Meninas che Pasolini suggeriva, con in alto uno schermo dove vengono proiettate anche immagini legate al franchismo e dove si inserisce l’immagine di Anna Bonaiuto madre d’alto lignaggio.
Saponaro elabora anche un’intelligente intuizione sul linguaggio: per esempio fa parlare Rosaura interpretata dalla brava Maria Laila Fernandez in un miscuglio di castigliano e di italiano ma anche di napoletano quando è la puttana proletaria.
L’oggetto feticcio della scenografia è il letto su cui Rosaura fa i suoi sogni che può anche trasformarsi in letto di contenzione quando la sua follia, che in realtà è il parossismo della sua estraneità al mondo in cui vive, raggiunge livelli insopportabili dai quali non la salva certamente la carità pelosa di un dottore o di un prete. Attorno a lei si muove una società vacua rappresentata dall’altra interprete femminile, l’incisiva Clio Cipolletta che ricopre più ruoli dalla sorella Stella alla suora infermiera del manicomio in cui Rosaura è rinchiusa. Da segnalare anche le interpretazioni di Francesco Maria Cordella e di Luigi Bignone in più di un ruolo e il bravo Andrea Renzi che qui interpreta Sigismondo ma anche l’inquietante marito borghese pronto a qualsiasi acquiescienza al fascismo franchista
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato, Milano; dal 24 febbraio al Teatro Nuovo di Napoli. La foto di apertura è di Laura Micciarelli