Con una veloce panoramica delle tendenze produttive e linee artistiche emerse negli ultimi mei si conclude questa ricognizione sulla danza in Italia tra pandemia e futuro.- Silvia Poletti
A proposito di curatori e curatele, Wayne McGregor, nuovo direttore della Biennale Danza di Venezia, ha dato subito un segno molto chiaro di cosa sarà la ‘sua’ Biennale. Al di là delle sue ben note predilezioni per l’indagine sulle neuroscienze, processi cognitivi, rapporti con le diverse tecnologie e i diversi processi di catching images – che ha proposto anche nel primo cartellone veneziano ( con i progetti, tra gli altri, di Random International, Jan Fabre e Baryshnikov, Wilkie Branson) – McGregor ha infatti ribadito che al centro di tutto c’è la danza di alta, altissima qualità. Declinata nelle diverse forme attuali, ma sempre al top e in cui il pensiero coreografico è essenziale. Al di là delle compagnie presenti in cartellone, ad attestarlo il livello del Biennale College da lui organizzato. I ventuno giovanissimi selezionati -provenienti da tutto il mondo, ma molti italiani- hanno lavorato tre mesi in seminari e workshop e si sono presentati al pubblico in un dittico con Solo Echo di Crystal Pite e Far dello stesso McGregor. Una performance abbagliante per qualità, attacco, personalità degli interpreti, senso di ensemble. Personalmente mi hanno ricordato da vicino compagnie ‘giovani’ e ruggenti come il NDT2, ma soprattutto hanno dimostrato chiaramente che anche progetti didattici come quello veneziano possono essere svolti in maniere molto diverse – a seconda anche della competenza reale di chi li concepisce.
Pensavamo che la delimitazione del raggio d’azione dei programmatori, causa le frontiere bloccate per la pandemia, fosse un’opportunità reale per le formazioni italiane di determinarsi maggiormente sul proprio territorio. Le cose non sono andate davvero così, o almeno in parte. Compagnie come Aterballetto hanno dovuto fare i conti con stop-and-go dovuti a contagi interni all’ensemble ( che hanno condizionato parte della stagione estiva), ma anche con uno sminuzzamento in piccoli, se non piccolissimi nuclei di danzatori chiamati a performare qua e là in ‘microdanze’ tra piazze e saloni museali anche suggestivi, ma che al di là del ‘fenomeno’ poco apportano davvero all’attuale salute artistica dell’ensemble e al momento disorientano gli osservatori sul futuro della compagnia.
Stesso destino sembra condividere il Balletto di Roma, che ha chiesto ad un ex Aterballetto, Valerio Longo, di diventare la mano operativa accanto alla direttrice artistica, la studiosa Francesca Magnini. Dopo le confuse incursioni nella coreografia di ricerca della precedente direzione, il connubio può rivelarsi fruttuoso per la vita di una formazione ‘di giro’ agguerrita, che spesso strizza l’occhio al pop, ma con buona resa. Longo può funzionare in questo senso e lavorare con un gruppo di danzatori stabili può a sua volta essergli utile per affinare la sua danza e asciugarla dall’enfasi bigonzettiana che ancora traspare. Da parte loro due veterani della scena, come Sieni da un lato e Zappalà dall’altro, hanno continuato prodigandosi invece in diversi progetti, sia performativi che di produzione – il primo con Paradiso e il secondo con RiFare Bach– dove hanno rimarcato la propria padronanza del mezzo scenico e del linguaggio coreografico personale che per entrambi continua a evolversi e cercare nuove forme. Chapeau.
Sul coté contemporaneo duro e puro invece a parte registrare la vita felice del divertente e acuto Graces di Silvia Gribaudi (ora in debutto con un nuovo lavoro, Monjour), del sentito one man show del performer Marco D’Agostin Best Regards e dei diversi exploit di Michele Di Stefano ( tra cui un’inattesa quanto luminosa reinterpretazione dell’Atto delle Ombre di Bayadére per il Nuovo Balletto di Toscana) poco altro ci è sembrato davvero degno di segnalazione. Le reti di operatori continuano da parte loro a procedere in progetti di sostegno produttivo a vari livelli, ma anche qui -specie con artisti giovani – urge da parte di tutti una cautela maggiore: la scena si sta intasando di personaggi che poco hanno a che dare alla causa salvo una certa personale vanità e una supponenza pseudo-intellettualistica malintesa.
Uno sguardo infine si sofferma sul Balletto del Teatro alla Scala, che nonostante lockdown e problemi connessi, ha già mostrato la linea chiara del nuovo direttore Manuel Legris. Lo vedremo più in là, nel tempo, ma è già chiaro che forte di un bel gruppo di prime parti ( con un ‘reparto maschile’ di personalità interessanti) e di nuovi acquisti ( tra cui Alice Mariani, già principal a Dresda che viene a rafforzare il comparto femminile) ora Legris punta a raffinarne l’artisticità con masterclass di superstar che sono manna dal cielo. A parte la commovente lezione di Carla Fracci, oggi i danzatori lavorano i ruoli con la Ferri e con Murru, con Julio Bocca e altri nomi stellari, secondo un metodo di coaching in auge nelle grandi compagnie. La prossima stagione sarà però un banco di prova per tutto il corpo di ballo, sul quale vigila l’occhio del sovrintendente Dominique Meyer. Il quale sa bene che anche il Balletto può essere un ottimo brand per portare il nome della Scala sempre più in alto. Vedremo, anche questo, come si svilupperà nei prossimi mesi. (4.fine)
La foto di apertura di Andrea Macchia è tratta dal servizio su Swan Blast di Olivier Dubois (Bolzano Danza)