Per cause di forza maggiore il Festival Verdi è tornato nella sede storica del Regio, prontamente apparecchiata per le norme anticovid e pronta ad ospitare una battagliera edizione di Ernani. Che consacra il talento di Michele Mariotti. –Davide Annachini
A solo pochi giorni dal Macbeth inaugurale, il Festival Verdi di Parma ha dovuto fare i conti con il maltempo, che ha messo in forse la prosecuzione all’aperto delle manifestazioni, già con la forzata cancellazione della replica della Messa da Requiem. Con un tempismo sorprendente Anna Maria Meo, direttore generale decisionista quanto consapevole, ha messo in atto addirittura la riapertura del Teatro Regio, risolvendo il problema dei distanziamenti con opportuni divisori in plexiglas e garantendo l’accoglienza di un pubblico ben più nutrito di quello normalmente previsto dalle norme anticovid per un teatro al chiuso.
Di conseguenza dalla splendida cornice naturale del Parco Ducale il festival si è trasferito in un batter d’occhio alla sua sede storica, uno dei primi teatri italiani a riaprire nel nome di una ripartenza quanto mai auspicata e attesa. L’occasione è stata per Ernani, opera tra le più entusiasmanti del giovane Verdi, che in questo lavoro del 1844 espresse al meglio quell’impeto infiammato e bruciante tipico del melodramma risorgimentale degli “anni di galera”. Lo stesso dramma di Hugo, dal quale Francesco Maria Piave aveva preso ispirazione per il suo libretto e che aveva a suo tempo tentato anche lo stesso Bellini, era stato un atto rivoluzionario, scatenando nel 1830 la cosiddetta “battaglia dell’Hernani” tra classicisti e romantici e provocando la scintilla contro il potere assolutistico di Carlo X, che avrebbe portato alla sua detronizzazione a seguito della rivolta popolare delle “tre gloriose giornate” di Parigi, immortalate nel celeberrimo capolavoro di Delacroix La Libertà che guida il popolo.
Un soggetto che aveva fatto da apripista al nascente Romanticismo in Francia poteva prestarsi idealmente quattordici anni dopo a un artista in prima linea come Verdi, che in un’Italia assoggettata veniva identificato da un paio d’anni – grazie a Nabucco – come il portabandiera di uno spirito nazionalistico e rivoluzionario. Le impennate eroiche, i cori esortativi (vedi il celeberrimo “Si ridesti il Leon di Castiglia”), il senso dell’onore innanzi tutto erano gli ingredienti fondamentali per un’opera che doveva accendere le coscienze, sotto l’ambientazione oleografica di una Spagna cinquecentesca, ma d’altro lato gli abbandoni sentimentali e le contese amorose per un’unica donna da parte di tre aristocratici, di cui uno sotto le spoglie di bandito e un altro addirittura re, esprimevano perfettamente il sentire romantico.
Come in tutta la produzione giovanile verdiana, la scrittura vocale non perdona e di conseguenza un’opera come Ernani pretende un quartetto di protagonisti di prim’ordine per giustificare la sua ripresa, tanto più nel caso specifico di un’esecuzione in forma di concerto, principalmente focalizzata sul canto.
A Parma le voci c’erano e tutte particolarmente battagliere, a cominciare da quella baritonale di Vladimir Stoyanov, che di Don Carlo di Spagna ha restituito non solo la vocalità ampia e regale, il legato nei bellissimi cantabili, la sicurezza degli acuti ma soprattutto il fraseggio espressivo, che in Verdi pretende la scolpitezza di parola e di accento. Alla sua prova davvero ammirevole ha corrisposto il debutto di Eleonora Buratto non solo nel ruolo insidioso di Elvira, quanto mai svettante e virtuosistico, ma ancor più in un cambio di repertorio, che dai ruoli di soprano lirico sembra puntare a quelli spinti come questo, in cui la penetrazione del volume, la franchezza del registro acuto, la nitidezza e tenuta esecutive hanno confermato un’artista consapevole, agguerrita e suggestiva. Nel ruolo del titolo Piero Pretti ha confermato una voce di schietto impatto tenorile, limpida, timbrata e sicura sull’acuto, ma forse del bandito Ernani ha privilegiato più il canto eroico che quello sentimentale, in un canto sonoro più che sfumato e con un fraseggio non sempre eloquente per restituire l’immagine byroniana, inquieta e romantica, dell’infelice protagonista. Roberto Tagliavini, nella parte del vecchio ma indomito Silva, ha messo in luce una vocalità di basso tra le più interessanti in circolazione in Italia, con quella densità di colore e quell’autorità esecutiva ideali per una delle prime grandi parti verdiane per basso, anticipatrice nei suoi contrasti spietati e dolenti del futuro Filippo II del Don Carlo.
Completavano il cast Carlotta Vichi (Giovanna), Paolo Antognetti (Don Riccardo), Federico Benetti (Jago), insieme alla Filarmonica Arturo Toscanini e al Coro del Teatro Regio (preparato da Martino Faggiani), sotto la direzione entusiasmante di Michele Mariotti, ancora una volta interprete convincente e coinvolgente del repertorio verdiano, che, anche in un’opera come Ernani, scandita spartanamente in una sequela di recitativi, arie e cabalette, ha dimostrato di saper trovare una teatralissima logica drammaturgica e soprattutto di crederci, con un’adesione e uno slancio appassionati.
Il successo maggiore è stato suo, condiviso con tutti gli interpreti, da parte di un pubblico felice non solo di aver ritrovato questo Verdi ma soprattutto il suo teatro.
foto di Roberto Ricci