Jérusalem stravince a Parma e non solo grazie a Verdi

Il Festival Verdiano ripropone un ‘Grand-Opéra sentimentale dove però risuona la grande vena di un Verdi appena risorto dagli anni di ‘galera’.Ed è successo.- Davide Annachini

Il Festival Verdi di Parma non poteva inaugurare meglio la sua rassegna, ricca di iniziative e di proposte stimolanti, con una rara ripresa di Jérusalem, opera confezionata nel 1847 per l’Opéra di Parigi quale rifacimento dei Lombardi alla prima Crociata. Un Verdi ancora degli “anni di galera” ma che già aveva spiccato il volo sia come artista (Macbeth, forse il suo capolavoro giovanile, è di pochi mesi prima), sia come compositore di successo, tanto da fare in quel ’47 il suo esordio internazionale a tambur battente prima a Londra con i Masnadieri e immediatamente dopo per l’appunto a Parigi. Proprio per questo avvicendarsi di commissioni il tempo per una nuova creazione era arduo da trovare e sicuramente decisivo nel costringere Verdi a un lavoro di recupero della sua quarta opera, che quattro anni prima aveva fatto eco al successo di Nabucco replicandone l’impatto nazionalistico. Ma, a differenza del suo prototipo, Jérusalem tocca meno le corde risorgimentali a favore di quelle sentimentali, su cui si incentra l’ostacolata vicenda d’amore dei due protagonisti, che per sfondo ha una panoramica inesauribile di tableaux, da Tolosa a Gerusalemme, dall’eremo del sant’uomo al serraglio dell’Emiro, che, con la tassativa parentesi delle danze, costituivano l’obolo da pagare al Grand-Opéra francese. Come avverrà successivamente per altre opere destinate ad avere due differenti versioni italo-francesi (Macbeth, Don Carlo, Vespri), Verdi saprà perfettamente come giocare le sue carte a favore del pubblico in questione, mutando apparentemente la pelle ma non di certo la qualità e la personalità della sua musica.

All’ascolto Jérusalem appare opera nel complesso diversa dai Lombardi, vuoi per l’utilizzo parziale (per quanto prevalente) delle musiche originarie, spostate però di collocazione e talvolta modificate nella tonalità, vuoi per l’ambientazione e il taglio del soggetto, vuoi per una finezza di scrittura in grado di rispondere perfettamente alla sensibilità francese, da un lato nel trascolorare in lirismo contemplativo l’empito esortativo di prima, dall’altro nel proporre nuove pagine di un eroismo più altisonante ed enfatico rispetto a quello di casa nostra. E’ questo il caso della grande scena scritta per un tenore leggendario come Gilbert Duprez (inventore del “do di petto” e della figura dell’eroe romantico nel melodramma), in cui Verdi si dimostra – a dispetto di quanto sia solito pensare – compiacente al divo di turno, come era poco prima avvenuto con Jenny Lind nei Masnadieri e come avverrà con Sofia Cruvelli per Les Vȇpres siciliennes.

Opera quindi di grande responsabilità esecutiva e scenica, Jérusalem ha trovato a Parma un’edizione ammirevole per equilibrio e rispondenza, tale da garantire il giusto rilievo a una partitura desueta e recuperata filologicamente grazie all’edizione critica di Jȕrgen Selk. Punto di forza dell’esecuzione era la scelta ricercata del cast, forse non sempre di caratura esattamente verdiana ma particolarmente intonato a questo Verdi francese. La scelta ad esempio per l’impervia parte di Hélène di un soprano squisito ma indubbiamente leggero come Annick Massis si è rivelata vincente perché, al di là di una certa carenza di volume nei concertati, la sua classe, la sua tecnica belcantistica, la sua duttilità nel canto sfumato hanno risolto con grande finezza la parte, insieme a una presenza scenica sempre elegante e focalizzata sul personaggio. Al suo fianco il Gaston di Ramon Vargas ha costituito una coppia perfetta, per la dolcezza di una voce un tempo dorata e tuttora ancora preziosa, che anche senza onorare gli acuti scritti per Duprez ha risolto tanto il versante lirico quanto quello drammatico del ruolo con stile e slancio ammirevoli. Sicuramente il successo più caloroso e meritato è spettato al Roger di Michele Pertusi, non tanto per il fatto di giocare in casa quanto per la piena maturità artistica raggiunta dal basso parmigiano sia sotto il profilo vocale, di grande espansione e bellezza timbrica, sia sotto quello d’interprete, intenso e appassionato nella sua sofferta trasformazione da cattivo a redento della storia.

Buono il resto della compagnia, in cui si è distinto per il penetrante risalto tenorile il Raymond di Paolo Antognetti, e ottime le prestazioni della Filarmonica Toscanini e in particolare del Coro del Regio di Parma preparato da Martino Faggiani, sotto la direzione attenta e ben calibrata negli effetti e nell’equilibrio buca-palcoscenico di Daniele Callegari, interprete intenso e appassionato di una partitura non sempre facile da tenere insieme.

Era da tempo che non vedevo uno spettacolo di Hugo De Ana e da tempo non ricordavo uno spettacolo altrettanto bello e coerente, musicale e colto, come questa sua Jérusalem, allestita con una ricchezza di mezzi legata a memorie passate. Spaziando dalle suggestioni di un Medioevo incombente e soffocante nel suo fanatismo religioso a quelle di una Gerusalemme sensuale attinta dalla pittura orientalista d’Ottocento, la sua regia ha riconfermato una superba qualità visiva sia nelle monumentali scenografie, sia nei meravigliosi costumi, sia nelle tonalità pastellate delle luci di Valerio Alfieri. Il tutto accompagnato da una lettura interpretativa sempre vigile e calibrata negli effetti, dalla gestione delle masse e delle coreografie (di Leda Lojodice) ai suggestivi cambi di scena a vista, come quello di una pioggia di sabbia dorata in grado di trasformare il severo interno di un castello francese in un assolato deserto orientale.

Grandissimo il successo per tutti e quanto mai meritato, da parte di un Teatro Regio affollatissimo.

Visto al Teatro Regio di Parma, 8 ottobre
repliche 12,20 ottobre

foto di Roberto Ricci