Durante il lockdown Dimitris Papaioannou ha elaborato una serie di visioni nelle quali il gioco del teatro si riconverte in immaginario senza tempo e due artisti si trasformano in due creature simboliche. E le ha regalate a due festival italiani- Silvia Poletti
Creatore di mondi immaginifici dove ciascuno può trovare le proprie risposte, consapevole erede di una cultura primaria- quella dell’antichità greca- da cui attinge a piene mani per riflessioni esistenziali, riletture mitologiche e soprattutto richiami artistici, Dimitris Papaioannou è ormai riconosciuto come il capofila di quella corrente di autori che sta rivitalizzando il teatro fisico attraverso un sempre più sincretico uso di tutti i mezzi oggi a disposizione della macchina teatrale. Dimitris li padroneggia, li piega alle sue idee, inventa o reinventa nuovi meccanismi per confezionare visioni dall’estetica sempre rigorosa e conseguentemente dalla suggestione sempre vivida. Dal ‘bello’ si passa al ‘buono’ avrebbero detto i suoi, e nostri, antenati: da ciò che ci trasmette l’immagine si risveglia la nostra riflessione interiore.
INK, la pièce che l’artista greco ha realizzato durante il lockdown (al posto dell’attesa nuova grande produzione rimandata a dicembre 2020) coprodotta e presentata in esclusiva da TorinoDanza e Aperto Festival di Reggio Emilia sintetizza tutto questo e prelude, evidentemente, al prossimo lavoro. Ma ha anche un suo valore intrinseco, sia poetico sia per chi semplicemente analizza il gioco teatrale. Perché sull’arioso palcoscenico del Valli (dove lo abbiamo visto) in un perimetro delimitato da veli di nylon immersi in una oscurità liquida e cangiante (da qui il riferimento del titolo?) lo stesso Dimitris, apparso all’apertura del sipario elegantemente immobile nel suo completo nero, sotto a un costante getto di acqua che proviene da una prosaica doccia da giardino, utilizza i meccanismi di questo oggetto per creare visioni: zampilli, spirali, lanci di gocce d’acqua- che l’interprete ora subisce, ora contrasta, ora letteralmente gestisce piegando e regolando il macchinario. Il gioco tra reale e metaforico è dietro l’angolo: Dimitris maneggia (alla fine della pièce, arriva a batterlo più volte a terra, come fanno i pescatori) un polpo. E subito il richiamo è alla simbologia antica che evidentemente Papaioannou ben conosce e per la quale questa elusiva creatura marina assume, tra l’altro, il significato di rappresentare la capacità umana di superare ogni avversità. Riferimenti all’attuale condizione umana? Lo stesso sembrano suggerire le due enormi boules -una di vetro, dove sguazza il mollusco, l’altra una mirror ball da discoteca che lancia i suoi lampi sui palchi del Valli: forse due lune che scandiscono il flusso vitale delle maree e della creazione e crescita della natura.
Seguendo una sua costante poetica (da Primal Matter in poi) Papaioannou contrappone l’uomo di oggi all’homo naturalis, capace di riemergere e di affermare la propria vitalità nonostante si tenti di soffocarlo, costringerlo, bloccarlo con pareti di plexiglass. L’armoniosa nudità da kouros di Suka Horn risulta indomita nonostante i molteplici tentativi di sopprimerla. I due uomini, così diversi ed elusivi nei loro gesti primari, intrecciano un dialogo muto di sfida, ma anche di comunione, di rabbia ma anche di solidarietà. Si riuscirà a trovare un punto di incontro? Pur con qualche momento farraginoso, specie nella prima parte, insomma INK suscita interrogativi e curiosità che si ripropongono a giorni di distanza dalla sua visione. Una sensazione piacevole, che conferma la valenza poetica di un artista che ha qualcosa da dire e sa come dirlo.
le foto in apertura e nella gallery sono di Julian Mommert